Era Palermo. Ed era dicembre. Un dicembre tiepido e sfolgorante, di quelli che a Milano al massimo capitano a maggio. Ricordo che fermai un passante chiedendogli indicazioni per arrivare al mercato del Capo. Lui esordì con un sorriso largo: quel luogo doveva stargli a cuore, e si vedeva. Cominciò a sbracciarsi sul marciapiede di fronte al Teatro Massimo, usando una mimica che solo chi è attore della vita sa usare. «Lei prende diritto questo vicolo, supera l’arco, bellissimo: lo vede quello là in fondo? E il mercato è nella strada alla sua destra e alla sua sinistra. Però io le consiglio di fare il giro più largo, per arrivare all’ingresso del mercato da sopra. Non è la stessa cosa, mi creda, ci vuole più tempo, ma quello è lo spettacolo e non va perso. Perché poi la bellezza le finisce…». Aveva ragione. La bellezza spesso finisce. Ma ne possediamo ancora tanta, e abbiamo cose meravigliose senza aver fatto nulla per meritarle, frutto del lavoro di altri. Uomini che hanno costruito cattedrali, dipinto meraviglie, scolpito l’inimmaginabile. E ci hanno lasciato in regalo l’eredità della luce che sprigionano, insieme alla pena di sapere che noi non siamo, e non saremo mai, bravi come loro. Qualcuno ha scritto che per sapere quanto un uomo sia ricco, occorre chiedergli quanta bellezza abbia vissuto. Noi, chi più, chi meno, siamo ricchi abbastanza. Basta aprire gli occhi.
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