Della mattina grigia in cui in un cimitero lombardo fu seppellito il mio amico Luigi, andatosene in una notte, una seconda faccia mi è stampata nella memoria.
La fossa venne scavata sotto ai nostri occhi da una ruspa. Sempre, nei cimiteri, avevo visto spalare la terra con i badili. Una ruspa? Ma nell’anno del Covid quel camposanto doveva accogliere una moltitudine di morti. Gli appena sepolti avevano sulla terra nuda solo una croce col nome - alcuni neanche quella. Sembrava passata una guerra, in Brianza.
Un uomo dalla cabina comandava la benna con abilità. Caricava la bocca dentata da una montagnola, nel fragore del diesel, e quasi con delicatezza depositava sulla bara la terra nera.
Ma mi ipnotizzò il suo viso: una faccia che pareva scavata nella pietra, tanto le pieghe del viso erano fisse, l’espressione impassibile. Lavorava con precisione, e tuttavia i suoi occhi chiari guardavano altrove, lontano.
Chissà chi sei, mi domandai. Chi sceglie di fare il becchino? Forse è un lavoro che accetta chi, dopo molti anni, esce dal carcere. La faccia dello sconosciuto mi faceva pensare a un prigioniero recluso per decenni, davanti a un muro invalicabile.
Ce ne andammo. Dissi «buongiorno» all’uomo della ruspa, sorridendogli. Lui sussultò, stupito, senza rispondere. Come non fosse più abituato, ad occhi che lo guardavano.
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