L'unione fa la forza non l'indifferenza
Madiba, sommerso dagli applausi sul palco aveva citato Desmond Tutu nel saluto inaugurale del torneo: «Siamo una nazione arcobaleno ed è nel rispetto delle sue componenti che stringiamo il mondo in un abbraccio ideale» e aveva, a suo modo, contribuito a fare la differenza nel risultato agonistico degli Springboks, bevendo una tazza di tè con il capitano Pienaar, episodio ben raccontato, al netto di una dose minima di fiction cinematografica, dal film Invictus. La maglia n. 6, quella di Pieenar e di Madiba, era sulle spalle di Kolisi, sabato scorso, in Giappone. Il primo capitano di colore (uno di quei bambini a cui il calcio di Stransky, ventiquattro anni fa, aveva cambiato la vita) ha pronunciato, al termine del match, un ispirato discorso: «Il nostro Paese ha molti problemi, ma avere una squadra così, con radici e razze diverse, compatta verso un unico obiettivo ha dimostrato che possiamo raggiungere qualsiasi cosa se lavoriamo uniti».
Nel 1995 un calcio cambiò la vita di Stransky, del piccolo Kolisi, di un Paese intero. Nel 2019 un calcio (quello di Mario Balotelli che, con un gesto di stizza, ha scagliato il pallone contro la curva dei tifosi ultras del Verona) ha generato prese di posizione, distinguo, tentativi di spostare l'attenzione sul dito che indica la Luna, invece che sulla Luna stessa. Qualche volta il tempo sembra fermarsi, in altre occasioni sembra scorrere pericolosamente all'indietro. Certamente lì, nel passato, ci sono tanto i sintomi di una malattia, quanto la sua cura: «Abbiamo bisogno di un'ispirazione» disse Nelson Mandela a François Pienaar davanti a quella tazza di tè. Abbiamo tremendamente bisogno di un'ispirazione, potremmo dire noi ai nostri sportivi, letterati, artisti, opinionisti. Quanto meno abbiamo bisogno di gente che dica come la pensa e che si schieri. Non sentiamo certamente più bisogno degli indifferenti. Anzi, ne avvertiamo distintamente il pericolo.