«Mi sono affezionato alla terra quanto non avrei creduto. È bella e terribile la terra. Io ci sono nato quasi di nascosto, ci sono cresciuto e fatto adulto in un suo angolo quieto tra gente povera, amabile e esecrabile. Mi sono affezionato alle sue strade, mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti, le vigne, perfino i deserti. (…) La vita sulla terra è dolorosa, ma è anche gioiosa: mi sovvengono i piccoli dell’uomo, gli alberi e gli animali. Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario. Congedarmi mi dà angoscia più del giusto. Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?».
Il poeta Mario Luzi nella Via Crucis condotta nel 1999 da Giovanni Paolo II, la Dodicesima stazione: Gesù è crocefisso, i soldati romani si giocano la tunica ai dadi.
Tra tante, la meditazione di Luzi è oggi quella che mi colpisce di più. Perché non avevo mai pensato che Cristo, anche uomo, anche figlio di una donna, potesse nell’ultima ora avere nostalgia del mondo. Di questa nostra terra “bella e terribile”, colma di povertà e di male, e tuttavia anche gioiosa: i piccoli dell’uomo, gli alberi, gli animali (il Gesù di Luzi elenca le cose belle del mondo quasi infantilmente, come lo potrebbe fare un bambino).
E mi ha sorpreso in questa Dodicesima stazione ciò che la parola di un poeta ha saputo suscitare in me: compassione. Com-passione per quell’uomo, come fosse uno che vedo soffrire, che vedo perseguitato, oggi. Come se attraverso la lente di Mario Luzi avessi riconosciuto in Cristo che, certo, è il Figlio di Dio, anche un uomo, anzi poco più che un ragazzo. Massacrato, insultato, sputato, schernito. Ho quasi potuto vedere come gli hanno trafitto le mani, e come le braccia, issata la Croce, si tendevano allo spasimo nel reggere il corpo. Gesù era anche uomo, un giovane uomo di pochi anni più grande dei miei figli. Non è di certo una scoperta. Ma c’è differenza fra il sapere qualcosa, e viverlo.
E ho visto sua madre. Le Madonne delle nostre chiese sono spesso giovani donne liete con un bambino in braccio, oppure egine incoronate di stelle. La Madonna è la madre onnipotente cui ogni cristiano si appella. Eppure, attraverso la lente di quella Dodicesima stazione ho intuito semplicemente una donna che assisteva impotente al martirio di suo figlio. Come oggi le madri in Ucraina, o in cento dimenticate guerre. Stare a guardare mentre picchiano, insultano, sbeffeggiano, torturano a morte tuo figlio. Nella Pietà Rondanini di Michelangelo si vede bene questa spada di dolore che ha trafitto l’anima di Maria, si vede che è passata. Ma l’istante di quella che ora mi pare una seconda crocifissione, mi è comprensibile adesso, a sessant’anni, grazie a quel verso di Luzi che racconta l’umanità di Cristo, nell’ultimo istante. Confesso che da giovane ho avuto una certa diffidenza verso i poeti, tranne che per i grandissimi. Certe poesie, in verità, mi paiono soltanto dei bei versi. Ma c’è una poesia che è affine alla preghiera. Come sorelle, diverse. In fondo entrambe portano in sé una indicibile domanda. Violano quella geometria di spazio e tempo così come li si insegnava a scuola, negli anni in cui io sono cresciuta. Spingono più in là, verso terre ignote.
Da ragazza mi identificavo in quel verso di Montale che ne “Il male di vivere” descrive la sofferenza straziante del mondo – il male di vivere è «il cavallo stramazzato», «il rivo strozzato che gorgoglia» – e conclude: «Bene non seppi/ fuori del prodigio/ che schiude la divina Indifferenza. Era la statua nella sonnolenza/ del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato».
La sola salvezza, pensavo, è l’indifferenza di una statua. Questo avevo imparato. Ora comincio a capire la sofferenza di Cristo, anche uomo, per noi. Di sua madre, una donna. Ora, è come se cominciassi a vedere.
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