Il primo ricordo è che faceva caldo. Quell’umido sospeso, che fa intuire che qualcosa debba accadere per forza. Telefono al giornale: ci sono dei morti. Fecero fatica a credermi, in tv non lo avevano detto, non ancora. La sera del 29 maggio 1985 il calcio ha smesso per sempre di essere un gioco. Juventus e Liverpool, finale di Coppa Campioni. Lo stadio Heysel per fortuna oggi non c’è più: crepato, senza posti numerati, privo di qualunque sistema di sicurezza. Lo scriveremo dopo, guardando un tappeto di cadaveri. E sarebbe stato meglio accorgersene prima. Eravamo lì per una partita di calcio. Quella che è diventata poi una guerra: 39 morti, quasi tutti italiani, molti con il torace schiacciato contro i muri di recinzione, altri con la gola aperta dalle punte metalliche che chiudono le transenne. Spinti in fuga dal terrore di vedersi arrivare addosso decine di inglesi ubriachi che stipati nel loro settore sfondarono transenne fragili come reti di zucchero cristallizzato.
A Bruxelles sono tornato altre volte. Grigia, piove quasi sempre, più triste di un funerale nella nebbia. Colpa di quell’ultimo stadio. Di uomini, donne e ragazzi che non ci sono più. E i loro parenti costretti a convivere con un nome, Heysel, e con la stupidità degli uomini. Come i genitori di Giuseppina Conti, di Arezzo, morta a 17 anni, che mesi dopo si videro recapitare dal Belgio il conto dell’ambulanza.
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