l'ultimo atto
(o Ricordi) dell'imperatore Marco Aurelio, ai quali abbiamo attinto per l'odierna riflessione. La frase citata è una sorta di motto, di insegna, di programma di vita: considerare ogni nostro atto importante come se fosse l'ultimo, sintesi e suggello di un'esistenza. Una volta i direttori spirituali raccomandavano ai sacerdoti di celebrare ogni Messa come se fosse la prima o l'ultima, con la stessa intensità ed emozione. È facile capire che questo non è pienamente possibile perché la fragilità umana impedisce una simile coerenza e non sopporta una tale tensione. Naturalmente questo vale anche per tutte le altre scelte o azioni rilevanti dell'esistenza. Tuttavia il monito di Marco Aurelio ha una sua verità e ci dev'essere di stimolo almeno per contrastare "le vane fantasie", come egli le chiama, cioè la superficialità, la banalità, la frenesia con cui maciniamo e dissolviamo parole, opere, amori, incontri, esperienze. Ritroviamo più spesso uno spazio di riflessione su chi siamo e ritagliamo un alone di coscienza su ciò che facciamo e diciamo.