Trema mentre prova ad accendere l'Olimpiade. Gonfio, spiritato, morsicato dal Parkinson che non gli ha chiesto chi fosse prima di iniziare a prenderlo a pugni. È uscito dal letargo Muhammad Ali, ma non può svegliarsi del tutto. Un orso telecomandato al quale hanno chiesto di accendere la fiaccola di Atlanta 1996. Ecco, ripercorrere la storia dei Giochi in attesa di quelli di Tokyo come stiamo facendo in questa rubrica, è una medicina per spolverare la memoria. Alcune storie riaffiorano a fatica, ma ci sono immagini talmente nitide che 25 anni dopo sembrano scattate 25 minuti fa. Come quella del pugile più grande della storia che eroso dalla malattia e appesantito dalla vita, commuove l'America e il mondo per la sua disarmante fragilità. «Avrei preferito non vederlo così. Per rispetto, per quello che è stato…», dirà di lui Nino Benvenuti pensando alla notte infinita di Atlanta. Non è così. Perché la pietà ha sempre un senso. E l'emozione che trasmette un simbolo non merita mai di essere oscurata. Per quello che ha fatto sul ring, e per quello che ha detto fuori. Come dopo Roma 1960, quando tornato negli Usa buttò in un fiume la medaglia d'oro. Per il colore della sua pelle gli avevano rifiutato l'ingresso in un ristorante. «Se una medaglia non mi serve nemmeno per mangiare qualcosa, vuol dire che conta davvero poco…». Così, in una notte di fiamme che stentano a bruciare, il mondo guardò stordito quel suo braccio tremante. Riconoscendo un eroe, giusto o sbagliato che sia, in un tempo senza fuochi dove gli eroi hanno finito di esistere da un pezzo.