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L'ostinazione di Budapest

Marina Corradi martedì 15 gennaio 2013
Budapest, agosto 1990 - Il Muro è caduto da un anno. Davanti ai primi negozi occidentali gli adolescenti si affollano, adoranti. Cosa sognano i ragazzi del nuovo Est? Il Black Hole è un locale dark, in un sotterraneo, adornato da una serie di tv non sintonizzate, sugli schermi solo linee grigie. Zsol, 23 anni, fa il poliziotto. È contento della fine del comunismo perché, dice, «finalmente la gente che mi vede in divisa non mi insulta appena volto le spalle». Prende 8000 fiorni al mese e ne spende 6000 di affitto. Guarda avidamente le tartine sul bancone, ma costano troppo. Gli pago un panino e una birra, e parliamo. Poi gli chiedo se crede in Dio. Alza le spalle: «Mia nonna mi diceva di pregare, ma Dio non mi ha mai risposto». Ma c'è qualcosa in cui credi? «Boh, no. Ah sì, agli extraterrestri. Ho un amico che se ne intende, dice che sono sbarcati in California, mi ha mostrato le foto».A un tavolo siede una ragazza molto truccata. Dice che sogna una casa sua, e un'auto che non la lasci a piedi. E basta? «Beh — ride — sogno di essere felice». (Imbarazzata, come chi dica una cosa assurda). Sono in molti, nel 1990 a Budapest, a sognare. Le librerie sono piene di testi di astrologia, chiromanzia, magia. Nella smemoratezza di Dio, un povero, ostinato bisogno, comunque, di sperare.