Rincasavo a piedi ieri e qualcosa impercettibilmente mi ha incupito. Cosa? Non capivo. Ma, ecco: da un lato il profumo inebriante di una siepe di gelsomino, dall'altro, dai noci neri del viale, già cadevano foglie ingiallite. Mai a Milano ho visto le foglie cadere, a giugno. Certo, la siccità, il caldo agostano. Eppure, un malessere mi si è insinuato addosso. Come una discronia: i gelsomini, il solstizio d'estate, e già foglie che muoiono. Come vedere rughe, sul volto di una ragazzina. Quasi il segno di un disordine in uno scorrere del tempo che ero abituata, da bambina, a vedere puntualmente scandito. A marzo la prima a fiorire era la mimosa; poi i peschi, poi i glicini viola. Poi, tutto: le rose a grappolo tra le sbarre dei cancelli, e i tigli, dolcissimi – odore di fine della scuola. Ero abituata a un percorso costante, parallelo all'alzarsi del sole allo Zenit, alle interminabili sere di giugno. Poi il solleone di luglio picchiava come un fabbro sulla pianura, rotto da brevi furiosi temporali. Fino a poco dopo Ferragosto: quando in un vento improvviso una falange di nuvole nere spaccava l'estate. Faceva caldo ancora, ma non più come prima. E solo allora gli ippocastani congedavano le prime foglie, che planavano dolcemente sui viali. Queste erano le stagioni, come le ho imparate. Qualcosa ora sembra incrinato nell'orologio del tempo. E ne è turbata una parte antica di me, che avevo dimenticato.