Il battere sonoro del martello colmava il silenzio dell’estate in montagna. La tua officina era un antro da orco, nera di decenni di fumo e di fuoco. Forgiavi il rame, ne traevi fantastici piatti ricamati. Avevi la schiena curva e le mani scure di fuliggine, grandi come badili.
Dicevano che eri matto. Parlavi da solo, borbottavi una tua confusa cantilena sempre uguale. Nella vecchia faccia gli occhi erano tanto storti che pareva sempre parlassi con altri: altri invisibili, lontani. Mia madre voleva che stessi lontano da te.
A me, che avevo sei anni, eri simpatico, e non avevo paura. Meraviglioso poi quel tuo antro d’orco con il fuoco rosso in fondo, nella fornace. Me ne stavo sulla soglia, affascinata, a guardarti: il metallo incandescente sotto ai tuoi attrezzi diventava un pizzo.
Dicevano che già strano eri prima, ma che tornato dalla guerra, su nelle Tofane, non eri più tu. (Chissà, mi dico, che tragedia lassù, nel sangue, nel gelo).
Ti avevano riportato a casa, ma avevi perso la ragione. Poi col tempo avevi ripreso a combattere col metallo, a costringerlo, con le tue grandi mani da orco buono.
Nel fienile, tra i rastrelli, avevo trovato un elmo rugginoso: «Mamma, se posso torno», c’era graffiato sopra, con un coltello. Da allora ti avevo voluto bene. Nelle trincee delle Tofane come un bambino, che voleva tornare dalla madre.
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