Zaffate di colori ocra, terra, rosa. Figure umane di piccole dimensioni. Una muraglia. Cammelli. Moschee in lontananza. Cupole, alte mura, altri cammelli. Per chi guarda i quadri, un senso insieme di accoglienza e di inaccessibilità. Paul Klee dipinse a più riprese la città di Kairouan così come gli appariva: luogo distante tanto quanto decisivo. A Kairouan accadde il momento forse più importante della sua vita di artista. Quello in cui, prima ancora del riconoscimento del mondo, decise di darsi da sé solo le ali. Essere quel che sentiva di essere. Ci si dà piena legittimità a fare e amare quel che si fa e si ama, e così ci si ribattezza da soli. Si rinasce. Era il 1914, e Klee viaggiava in compagnia di altri due pittori. Pensava che sua madre avesse origini orientali e di quelle era in cerca, anche perciò s’era messo in viaggio e aveva raggiunto il Nordafrica. «Casa?» appuntò su un taccuino, tanta era la sua infatuazione per quelle terre arse e incantate. Trovò un mondo intero. Proprio a Kairouan capì, come fosse un’agnizione. Scrisse: «Un senso di conforto penetra profondo in me, mi sento sicuro, non provo stanchezza. Il colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo. Mi possiede per sempre, lo sento. Questo è il senso dell’ora felice: io e il colore siamo tutt’uno. Sono pittore».
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