Vy Uyen ha sognato una casa per cinque anni. «Niente di speciale - racconta da una panchina di un parco di Houston -. Immaginavo di avere un tetto, di poter chiudere una porta alle mie spalle, di sentirmi al sicuro e poter pensare a curarmi e a cercare un lavoro. Perché quando sei per strada il tempo e l’energia vanno nel cercare da mangiare e nel difenderti dai pericoli, hai sempre paura». Nei cinque anni che ha passato in una tenda al Minute Maid Park, Vy è stata più volte avvicinata da volontari che le offrivano una notte in un rifugio. Ma per restarci c’erano sempre dei ma. Prima doveva completare un programma in dieci tappe per tossicodipendenti o un corso professionale. Prima doveva incontrare uno psicologo almeno tre volte, compilare formulari, dimostrare che non c’era nessuno che poteva darle una mano o offrirle un letto. «Già questo mi metteva fuori gioco - spiega - perché avevo una figlia adulta in Arizona. Ma non sapeva neanche che vivevo per strada. Forse lo sospettava, ma quando la chiamavo non faceva troppe domande, e la capisco. Voleva entrare nella polizia. Perché rischiare che qualcuno scoprisse che sua madre viveva così?».
Vy è nata a Saigon. Da piccola a vissuto la devastazione della guerra e del dopoguerra in Vietnam. Come molti “amerasiatici”, nati da donne vietnamite e militari americani, è stata cresciuta dalla madre senza conoscere il padre. Ma a 21 anni è partita per gli Usa, dove aveva diritto di entrare come rifugiata, sperando di trovare suo papà. «L’ho cercato per mesi, sapevo che veniva da Houston. Non l’ho mai rintracciato». Vy ha cercato di mantenersi come manicurista. Ha vissuto con altre ragazze in appartamenti minuscoli, è riuscita a tirare avanti per qualche anno. Poi è rimasta incinta. «Ero disperata, avrei voluto tornare a casa, ma mi vergognavo troppo per chiedere aiuto a mia madre e ai miei parenti a Saigon. Alla fine ho perso contatto con loro». Neanche rivolgersi alle associazioni di vietnamiti di Houston era un’opzione realistica. «La comunità vietnamita negli Stati Uniti è fatta di gente che lavora sodo e si sistema bene dopo essere arrivata. Ti possono fare l’elemosina, ma giudicano male quelli che hanno problemi, come me». Dopo aver partorito, Vy è stata colpita dalla depressione e i clienti del centro estetico hanno cominciato a lamentarsi dei suoi errori. Arrivava spesso in ritardo perché non sapeva a chi lasciare la bambina. È stata licenziata.
Per alcuni mesi ha dormito con la piccola in un'auto abbandonata in un vicolo dietro alcuni magazzini. Poi ha preso la decisione più difficile della sua vita. «Ho dato mia figlia ai servizi sociali, perché la sistemassero in una famiglia in affido. Era il 2000. Ha cambiato spesso casa, ma sono riuscita a vederla ogni tanto per 15 anni. Io vivevo qua e là, in dormitori, rifugi, motel, roulotte. Ma le cose andavano male». La depressione peggiorava, Vy faticava a mantenere lo stesso impiego per più di un paio di mesi, finché è scivolata nella dipendenza da crack. «È stato il periodo peggiore. Non ho visto mia figlia per anni». Nel febbraio 2023, Coalition for the homeless, l’associazione che aiuta i senza tetto collaborando da vicino con il Comune di Houston e altre non profit texane, ha trovato una casa a Vy. Come prevede il nuovo programma “housing first” (la casa prima di tutto) della città, nessuno ha imposto condizioni. Non le hanno chiesto se consumava ancora droga e se avrebbe seguito dei corsi di formazione. Le hanno dato le chiavi di un monolocale, qualche piatto e bicchiere, pentole e padelle, un letto, lenzuola, salviette. Un’assistente sociale che la va a trovare una volta alla settimana. La dignità. Vy può restare nell’appartamento gratis per un anno. Il tempo sta per scadere, ma nel frattempo ha trovato lavoro nella nettezza urbana e potrà permettersi di pagare l’affitto. “Svuoto i bidoni e raccolgo le cartacce nel parco dove ho dormito per cinque anni — dice con un sorriso —. Continuo a combattere contro la malattia mentale, ma posso farlo al sicuro”. Non appena avrà abbastanza soldi conta di andare a trovare la figlia a Tucson. «Spero che veda quanta strada ho fatto e che mi accetti ancora nella sua vita».
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