Dato che non sono un linguista, mi permetto di non pensarla come i linguisti e disubbidire al loro primo comandamento deontologico secondo cui la linguistica, per essere scientifica, deve essere avalutativa: deve cioè registrare e descrivere i fenomeni usuali senza giudicarli, perché giudicare, se non è prescrivere, può esserlo implicitamente. In verità c’è anche qualcosa da obiettare all’idea di linguistica come scienza “libera da valori”. Così la pensava proprio il maggiore sociologo del secolo scorso, Max Weber: ma da un punto di vista un po’ più filosofico o solo limitatamente marxista, l’idea weberiana di scienza sociale ha meritato le critiche di chi vedeva nella sua scientificità un eccesso di zelo professionale o professorale, che si rassegna ad accettare i fatti come sono senza permettersi di valutarli. Ma si possono studiare le società umane come si studiano gli ambienti naturali? Personalmente non credo e non lo vorrei mai. In ogni società umana c’è senza dubbio una parte di natura, a cui si aggiunge però una decisiva parte di cultura, di giudizio critico e libera scelta. La linguistica è una scienza sociale, non una scienza naturale: i suoi fenomeni, essendo un prodotto di scelte umane, presuppongono giudizi e devono perciò prevedere di essere giudicati almeno in termini di effetti provocati da cause.
Nella presente situazione mondiale, così drammatica da farci scambiare i numeri dei morti per puri numeri, succede di ascoltare più di prima discorsi radiofonici e televisivi. Si notano così una serie di tic linguistici più o meno recenti del “parlato pubblico”, tic che fanno pensare a un particolare genere di impoverimento, ma anche di artificiosità verbale, più dovuti ad acculturazione, enfasi e snobismo che a ignoranza. Per esempio: ormai nessuno usa più i semplici articoli dopo il verbo senza aggiungere un certo riempitivo inutile. Così, invece di dire «vanno considerati i rischi» oppure «mettere in conto le perdite», si dice «vanno considerati quelli che sono i rischi» e «mettere in conto quelle che sono le perdite», eccetera: «quello che sarà il nostro futuro», «quello che è il nostro debito pubblico», «quella che è la natura del nostro territorio», «quelle che sono le nostre idee»... Termini come “problemi”, “difficoltà”, “guasti”, “ritardi”, “inadempienze”, vengono sostituiti da un solo termine: “criticità”, identico al singolare e al plurale. Invece di dire “grave”, “notevole”, “interessante”, “preoccupante”, “rilevante”, “in aumento”, “in diminuzione”, “che fa pensare”, si dice: “importante” (a orecchio mi sembra un uso anglicizzante). Invece di “spiegare”, “descrivere”, “chiarire” o semplicemente “dire”, si usa indiscriminatamente “raccontare”, e invece di “idea” o “interpretazione” si preferisce “narrazione” (in effetti tutti scrivono romanzi e non pochi raccontano balle). Quanto a “lockdown” invece di “chiusura”, non sarebbe stato più educato e civile, in stato di emergenza e in un Paese in cui gli ultrasettantenni non anglicizzati abbondano, evitare un tale termine mai usato prima? Accadde già con “spread”, che in quel caso voleva dire differenziale, differenza, scarto. Ma evidentemente quando si tratta di economia la lingua italiana è proibita... Suona inadeguata o volgare.