Dovunque ci giriamo, l’incertezza regna sovrana. Un’incertezza strutturale, con sprazzi di luce ma a tratti sinistra. E più che in altri casi le sensazioni che arrivano dall’economia non solo la confermano, ma forse aiutano anche a capirla meglio. Sia che guardiamo al quadro macro (cioè come va il mondo), che a quello micro: come sta l’Italia. Oggi si chiude il primo trimestre dell’anno, ma ancora non si capisce esattamente quale sia la situazione attuale e come si mettano le cose per i prossimi mesi. Nel mondo e anche nel nostro Paese. Una fotografia confermata dalle ultime stime rese note in settimana da Prometeia, istituto indipendente di ricerca economico tra i più accreditati perché considerato super partes. In settimana da Bologna hanno presentato il nuovo rapporto di previsione, che per l’Italia ha sensibilmente migliorato le aspettative di crescita rispetto a tre mesi prima: il Paese ora è proiettato su un 2024 con un Pil in crescita dello 0,7%, quasi il doppio del +0,4% atteso alla fine dell’anno scorso, quando l’istituto aveva dato gli ultimi numeri al riguardo. Il rimbalzone post pandemico è finito, ma decisamente meglio che niente. Di qui la domanda: alla fine, il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto? Chi può dirlo. Non in Prometeia, dove per ora mettono in fila i dati, ma sulla diagnosi preferiscono non sbilanciarsi. Tanto è vero che allo studio con la correzione al rialzo hanno abbinato un sottotitolo che la dice lunga: “I rischi di adagiarsi su uno scenario rassicurante”. È qui che tutto si tiene. Perché in fondo l’Italia somiglia alla sua crescita economica: più forte del previsto, sembra comunque poggiare più sul passato che sul futuro, cioè sulla spinta di un 2023 chiuso meglio del previsto, e su voci straordinarie più che su elementi strutturali. È il vero nodo: il 2024, dicono gli economisti, è appeso alla capacità dell’Italia di mettere a terra il Pnrr, ai benefici ancora legati al Superbonus e ai consumi delle famiglie. In pratica alla più grande misura una tantum mai lanciata dall’Europa, a un’onerosissima scelta fiscale che il ministro Giorgetti ha ancora definito in settimana “dal conto salatissimo”, che “graverà per diversi anni a venire” sulla finanza pubblica e sul debito. L’unica leva ordinaria sono i consumi, che però sono volatili per definizione. Perché dipendono dal reddito degli italiani (che negli ultimi anni hanno fatto i conti con un calo del 5% dei salari reali), dall’inflazione e dai tassi d’interesse (che vi sono collegati), e più in generale dall’umore dei consumatori, decisivo per le spese non necessarie. Anche qui, i segnali sono contrastanti. Partiamo con il freno tirato, ma alcuni elementi sono positivi, perché sul fronte del reddito si è messa in moto la macchina dei rinnovi contrattuali, perché - nonostante la mini-fiammata registrata in settimana - i prezzi sono in discesa, perché l’occupazione non solo regge ma si consolida. Morale: ancora un altro trimestre per chiarirci le idee e poi capiremo dove andremo, perché “nella seconda parte dell’anno poi potrebbero essere le condizioni per una robusta ripresa dei consumi”, come ha dichiarato Lorenzo Forni, segretario generale di Prometeia associazione. Siamo daccapo: incertezza, ma con qualche elemento in più per decriptarla che ci arriva dai numeri. Con un avvertimento, però, che rubiamo al premio Nobel per l’Economia 2002, Daniel Kahneman, scomparso in settimana: dopo aver approfondito per una vita gli aspetti comportamentali della disciplina, arrivò alla conclusione che troppo spesso l’occhio umano trae conclusioni sbagliate, semplicemente perché viziate da eccessiva confidenza o da campioni di dati troppo limitati. Non resta che pazientare.
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