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L’Italia delle “differenze” e il tecnico rivoluzionario

Mauro Berruto mercoledì 12 giugno 2024
Serate memorabili, quelle allo stadio Olimpico di Roma in occasione dei Campionati europei di atletica leggera. Memorabili per i risultati, per il medagliere, per il fatto di vedere l’Italia svettare con autorevolezza in discipline dove storicamente il nostro Paese non era mai stato protagonista o non lo era più da decenni. Le gare di velocità, i salti, il getto del peso, la mezza maratona, la marcia: non c’è quasi ambito delle tante specialità dell’atletica che non ci veda assoluti protagonisti. Un plauso e un enorme ringraziamento devono andare all’architetto di tutto ciò, colui che ha tenuto insieme la visone di un’utopia con il lavoro quotidiano necessario per realizzarla: mi riferisco al direttore tecnico Antonio La Torre che (i più scaramantici incrocino pure le dita per i Giochi Olimpici di Parigi) si candida ad essere uno degli uomini che più hanno cambiato la storia dello sport del nostro Paese. Per restare nel settore, verrebbe da paragonare il lavoro di La Torre a ciò che Carlo Vittori fece con Pietro Mennea, ma con un coefficiente di difficoltà moltiplicato per discipline totalmente diverse e con ragazzi e ragazze completamente diversi fra di loro e da lui, l’indimenticabile “freccia del sud”. Già, ragazzi e ragazze completamente diversi fra di loro, perché se per milioni di tifosi e appassionati di sport le serate dell’Olimpico sono state memorabili, a qualcun altro saranno risultate indigeste. Indigeste per la bellezza di tanti atleti e atlete con la pelle dalle sfumature più diverse, campioni in pista, abili davanti a un microfono, intelligenti, educati, ironici, sorridenti, talvolta con capigliature improbabili e spesso con simpatiche (e marcate) inflessioni dialettali. L’Italia più bella e vincente è quella scesa in pista a Roma. Un’Italia che già esiste, è lì davanti ai nostri occhi, un modello di società che funziona, eccome. E non solo perché vince medaglie, ma perché si nutre di quelle differenze, si abbraccia felice in quella meravigliosa contaminazione di geni, di culture, di saperi, di muscoli, di cervelli e si riconosce, ancor più meravigliosamente, nella nostra bandiera e nella maglia azzurra. È definitivamente giunto il momento, anche grazie a questa lente di ingrandimento (non sul futuro, ma sul presente) che lo sport mette a disposizione, che si identifichino soluzioni politiche concrete sul tema della cittadinanza. Perché i meravigliosi successi dell’atletica italiana non devono far dimenticare una cosa: non è un talento che deve accelerare l’accesso a un diritto, perché un diritto è un diritto. Non è correre più veloce, saltare più lungo, suonare meglio un violino o far meglio di calcolo che deve permettere di ottenere il diritto alla cittadinanza in modo più rapido. Sono certo che lo chiedono anche i nostri campioni e le nostre campionesse che quel diritto lo hanno acquisito, qualcuno di loro dovendo aspettare il diciottesimo anno di età, e che oggi rendono così onore all’Italia, il loro e nostro Paese. Lo fanno, ne sono certo, vincendo a nome di un milione di ragazzi e di ragazze di seconda e terza generazione, che magari di talento ne hanno meno, oppure non l’hanno ancora trovato, ma che sono italiani esattamente allo stesso modo e sono in attesa che qualcuno riconosca loro il diritto di esserlo. Quel diritto di indossare, fisicamente o metaforicamente, la “maglia azzurra” che permetterebbe di poterla onorare e, in forma coerente a qualsivoglia talento e impegno, contribuire al progresso del nostro Paese. © riproduzione riservata