L'Italia da amare di Camus, con i volti degli artisti nelle strade, è svanita?
Bellocchio inizia così: «Ogni volta che in questi ultimi tempi sentivo blaterare di disunire l'Italia, la mia reazione era quella di chi subisce un'offesa profonda (…) Ma che cosa reagiva immediatamente in me? Qual era il punto sensibile? Quale idea o sentimento del mio Paese? Devo rispondere: Dante, Machiavelli, San Francesco, Michelangelo, Leopardi, Manzoni, Verdi … Non Garibaldi, Mazzini, Cavour. La lingua, l'arte, la cultura, ben prima e al di sopra della politica. Solo chi non ha amato i versi di Dante, le chiese romaniche, i corpi e i volti che i nostri artisti hanno fissato negli affreschi (…) solo chi non sente tutto questo come patrimonio fondamentale dell'anima, può concepire di dividerlo e disperderlo».
E Camus? Nei suoi taccuini lo scrittore nato e cresciuto in Algeria, un mediterraneo, non nordico, mostra di essere affascinato dal rapporto «miracolosamente armonico tra i tesori d'arte , il paesaggio, gli abitanti». È colpito da certi volti, da certi sorrisi, perché «i volti dei primitivi fiorentini sono gli stessi che si incontrano per strada ogni giorno». Siamo nel 1937. Tornato in Italia nel '55, Camus annota: «Ora bisogna cambiare vita (…) Mi pento qui degli anni neri e stupidi che ho vissuto a Parigi». I luoghi che più sente il bisogno di rivedere sono Arezzo, Gubbio, Siena, Assisi (ma «senza turisti e senza Vespe») e «mangiare ancora i cocomeri per le strade calde di Verona».
Le conclusioni di Bellocchio possiamo immaginarle. Sono desolate. I volti degli italiani non somigliano più a quelli che troviamo in Giotto, Masaccio, Caravaggio. L'Italia amata da Camus, l'Italia che potevamo amare, è sparita.