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L'isola di Utopia nel mare di atti e fatti di guerra

Mauro Berruto mercoledì 8 gennaio 2020
Il 2020 è iniziato all'insegna dell'ennesima, pesantissima, tensione internazionale. Venti di guerra si sollevano e scuotono Medio Oriente e Nordafrica, Stati Uniti d'America e altre "potenze, ma anche le nostre vite quotidiane con una modalità nuova, che ci raggiunge in maniera ancora più capillare e individuale. Una guerra che sembra un tragico videogame, affidata a droni che partono da chissà dove, guidati da chissà chi e raccontata a colpi di tweet direttamente dal Presidente della più grande democrazia del mondo con dei toni che sembrano quelli di un bullo delle scuole medie. Non c'è dubbio: siamo tutti preoccupati, spaventati da questo inizio d'anno. Allora è bello aggrapparsi al fatto che il 2020 sarà anche l'anno dei Giochi della XXXII Olimpiade e che alla base del Movimento Olimpico vi è un principio fondamentale: quello di avere lo scopo di migliorare il mondo e renderlo più pacifico attraverso la pratica sportiva.
È questo la ragione che ha spinto il Comitato Olimpico Internazionale a riproporre l'istituto della Tregua olimpica, che caratterizzava gli antichi Giochi in Grecia. Si chiamava ekecheiría (letteralmente "le mani ferme") e aveva lo scopo di permettere a tutti gli atleti e gli spettatori che raggiungevano Olimpia, di poter viaggiare in sicurezza e di dar vita al meraviglioso spettacolo dei Giochi. Diversamente dal passato, la Tregua Olimpica oggi può vantare anche il supporto delle Nazioni Unite. Insieme Cio e Onu supportano un progetto di sport come strumento di dialogo, riconciliazione e pace. Il secondo principio fondamentale della Carta olimpica lo rende abbastanza chiaro: «L'obiettivo dell'Olimpismo è di mettere lo sport al servizio dell'armonioso sviluppo dell'uomo, al fine di promuovere una società pacifica che si occupa di preservare la dignità umana».
Qualche volta, a me per primo, viene in mente che allo sport si richieda una funzione tremendamente alta, sfidante, importante. Lo sport non può imporre la pace, ma può contribuire a ispirarla, a facilitare il dialogo, a promuovere un maggior spirito di tolleranza fra le nazioni. Fece il giro del mondo una fotografia scattata ai Mondiali di calcio del 1998 in Francia, al termine della partita fra Usa e Iran che non avevano relazioni da oltre vent'anni. L'immagine di quei ventidue calciatori mescolati, sorridenti e abbracciati, fece più di anni di tentativi diplomatici.
Non è retorica quella di affidare ai Giochi di Tokyo non solo la speranza di due settimane di pace, ma anche di cambiare questa terribile atmosfera. Il realismo della storia ci insegna che l'ideale olimpico ha visto cocenti sconfitte (la strage della Piazza delle Tre Culture a Città del Messico 1968, il massacro nel villaggio olimpico di Monaco 1972, il boicottaggio occidentale a Mosca 1980 e quello del blocco sovietico a Los Angeles 1984), ma anche momenti esaltanti come, per citare l'ultimo, lo sfilare sotto un'unica bandiera delle delegazioni di Corea del Sud e del Nord ai Giochi invernali di Pyeonchang. Chi ha avuto il privilegio di vivere il villaggio olimpico ha il dovere di raccontare che quella magia è possibile. Già, il villaggio olimpico: un non-luogo dove la Palestina vede Israele dalla finestra, dove uno Finlandese rincorre un Giamaicano per chiedergli una foto, dove un cestista americano milionario sta alla mensa, con il suo vassoio in mano, in fila dietro ad un lottatore afghano e non gli viene neppure in mente che potrebbe passargli davanti.
Il fascino e la bellezza di questa isola di Utopia compare ogni quattro anni, per un paio di settimane. Che mondo sarebbe se questi atleti, capaci di raggiungere e vivere quella utopia che diventa realtà, diventassero classe dirigente dei loro Paesi? Il 24 luglio 2020 l'isola riapparirà. Sarà un viaggio lungo e probabilmente faticoso, ma la fatica, medicina del mondo, è l'alfabeto necessario per scrivere grandi storie di pace.