Rubriche

L'invito di Francesco: dalla paura alla rinascita

Salvatore Mazza sabato 4 aprile 2020
La prima volta che mi trovai davanti a una bidonville fu in Argentina, quasi trentacinque anni fa, e fu uno choc totale. Poco dopo vennero gli slums dell'India, l'inferno in terra, luoghi d'inimmaginabile orrore umano; e dopo ancora le favelas brasiliane, e gli indicibili sobborghi delle megalopoli africane, e i campi profughi. Alveari umani dove le persone vivono accatastate le une sulle altre, in mezzo a liquami e a rifiuti di ogni tipo, e a topi che spesso finiscono in pentola. In questi giorni di pandemia, mi è capitato spesso di pensare a che cosa potrebbe succedere – o si deve dire "succederà"? – quando il coronavirus dovesse raggiungere quei posti. E il possibile scenario è da far accapponare la pelle, perché parliamo di centinaia di milioni di persone, forse miliardi, per le quali non ci saranno mai né terapie intensive, né letti d'ospedale, né cure.
È la stessa domanda che si fanno molti, e che anche Papa Francesco s'è posto, dandosi una risposta inquietante: quello che si rischia è un vero "genocidio virale". Un'espressione molto forte, ma non esagerata, che rende il quadro che potrebbe determinarsi non in un ipotetico futuro, ma domani. E in una lettera indirizzata a Roberto Andrés Gallardo, presidente del Comitato Panamericano dei giudici per i diritti sociali, ricorda una volta di più che «il futuro è adesso», nella fame delle «persone senza un lavoro fisso», nella «violenza», nella «comparsa degli usurai... criminali disumani che sono la vera piaga del futuro sociale». Tutte situazioni da prevenire, avendo presente la «progressione geometrica della pandemia». Alcuni governi, osserva il Pontefice nella sua lettera, «hanno intrapreso un'azione esemplare con priorità ben definite per difendere la popolazione», misure imprescindibili «per il bene comune». I governi che «affrontano la crisi in questo modo mostrano la priorità delle loro decisioni: le persone prima di tutto. E questo è importante perché tutti sappiamo che difendere il popolo vuol dire evitare un disastro economico», mentre appunto «sarebbe triste se scegliessero il contrario, che porterebbe alla morte di molte persone, una specie di genocidio virale».
Nelle parole di Francesco riecheggiano alcune pagine fondamentali della dottrina sociale della Chiesa. Durante il grande Giubileo del 2000, incontrando il primo maggio i lavoratori, Giovanni Paolo II disse che «mai le nuove realtà che investono con forza il processo produttivo, quali la globalizzazione della finanza, dei commerci e del lavoro devono violare la dignità e la centralità della persona umana, né la libertà e la democrazia dei popoli». E dicendosi vicino «a tutti coloro che soffrono per mancanza di occupazione, per salario insufficiente, per indigenza di mezzi materiali», invitò a «impegnarsi perché queste situazioni vengano sanate, ridurre o addirittura condonare il debito dei Paesi poveri sarebbe opera di pace e giustizia». E dieci anni più tardi, parlando a Westminster, nel pieno della crisi finanziaria che aveva investito l'occidente, Benedetto XVI osservava che «è stato incoraggiante, negli ultimi anni, notare i segni positivi di una crescita della solidarietà verso i poveri che riguarda tutto il mondo. Ma per tradurre questa solidarietà in azione effettiva c'è bisogno di idee nuove... in verità, il mondo è stato testimone delle vaste risorse che i governi sono in grado di raccogliere per salvare istituzioni finanziarie ritenute "troppo grandi per fallire". Certamente lo sviluppo integrale dei popoli della terra non è meno importante: è un'impresa degna dell'attenzione del mondo, veramente "troppo grande per fallire"».

Oggi la pandemia ci pone davanti a un nuovo bivio, ci dice Francesco. Con sullo sfondo lo spettro di un genocidio virale. A noi trasformare la paura in un nuovo inizio. Perché il domani è oggi.