Marc Augé, scomparso lunedì all’età di ottantotto anni, è stato un antropologo che, dopo anni di importanti ricerche etnografiche in Africa, decise di concentrare la sua azione nell’osservazione della società contemporanea metropolitana. Le grandi città divennero l’oggetto dei suoi studi e delle sue intelligenti riflessioni quali il paradossale incremento della solitudine nonostante l’evoluzione dei mezzi di comunicazione e la famosa definizione di nonluogo, ovvero quello «spazio anonimo e stereotipato, privo di storicità e frequentato da gruppi di persone freneticamente in transito che non si relazionano» come accade negli aeroporti, negli alberghi, sulle autostrade, nei grandi magazzini. La sua ricerca e il suo linguaggio, che potremmo definire pop nel senso più alto del termine, hanno contribuito a far comprendere a un pubblico diffuso come un antropologo possa essere un prezioso punto di osservazione di un mondo che ha molto a che fare con la quotidianità. Se leggere “Tristi tropici” di Lévi-Strauss può sembrare (apparentemente) un esercizio intellettuale che ha poco a che fare con la nostra realtà, Marc Augé ha portato l’antropologia fra noi. Che si tratti di metropolitane, supermercati, grandi catene alberghiere, ma perfino campi profughi, i nonluoghi sono posti al quale si accede dimostrando la propria identità (che si tratti di passaporti o di carte di credito non fa differenza) e dove ci smarriamo in una sorta di anonimato di massa. Un attento osservatore della contemporaneità come Augé non poteva restare indifferente di fronte al mondo dello sport, che infatti studiò con attenzione. Nel suo libro “Football, il calcio come fenomeno religioso” Marc Augé, a chi ritiene che il calcio sia oppio dei popoli o generatore di consenso (qualche volta di dissenso), risponde che il calcio non è semplicemente uno sport, ma un vero «fatto sociale totale», come avrebbe detto il suo collega Marcell Mauss. «Il riunirsi di diverse migliaia di individui che provano gli stessi sentimenti e che li esprimono attraverso il ritmo e il canto» sembrano creare le condizioni di una percezione sensibile del sacro. Una liturgia che si ripete ad ogni partita, che esce dagli stadi e si propaga, grazie al mezzo televisivo, fino a raggiungere i connotati di culto domestico, un rituale dove canti e azioni si ripetono e sono da tutti conosciuti e replicati. «Forse l’Occidente sta anticipando una religione e ancora non lo sa» dice Augé nel suo breve saggio, scritto per la rivista “Le Débat” nel 1982. È cambiato il calcio in questi quarant’anni, ma non sono cambiate quelle pulsioni sulle quali, già allora, Augé voleva far riflettere: la dimensione dei giganteschi rapporti di forza e politici che sottendono lo sport più diffuso al mondo, gli stadi come templi dove ventitré officianti (i calciatori e l’arbitro) danno vita a un rituale collettivo per schiere di fedeli che sono la somma di milioni di solitudini individuali. E pensare che Augé, nel 1982, non aveva ancora sentore di quanto successe a Rosario, in Argentina, quando nel giorno del trentottesimo compleanno di Diego Armando Maradona venne fondata la Iglesia Maradoniana: oggi conta quasi un milione di “adepti”.
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