L'infinito rimpianto del «Mozart della pallacanestro»
Dražen Petrovic combatteva la sua guerra giocando a pallacanestro. Lo faceva da individualista, da fenomeno vero e puro. Non si contano i suoi record di punti (uno per tutti i 62 punti segnati in finale di Coppa delle Coppe nel 1989 con il suo Real Madrid contro Caserta) e non sono leggende le sue ossessioni come quando, adolescente, si alzava all'alba per poter fare almeno 500 tiri prima dell'inizio della scuola o, già professionista a Madrid, non se ne andava dall'allenamento prima di aver messo dentro all'anello cento triple. Combatteva così, il Mozart del basket, con l'arma del suo talento esagerato e cadeva al ritorno da una sorta di fronte sportivo, dopo aver segnato il suo ultimo canestro: un tiro libero, il suo punto numero 30, indossando la maglia della Croazia contro la Slovenia in una gara di qualificazione disputata in Polonia e che fino a una manciata di anni prima sarebbe stata una partita impossibile da giocare. Decise di tornare in Patria con una macchina, ma si fermò per sempre su una strada della Germania.
Difficile spiegare quegli anni sull'asse sport e politica. La Jugoslavia era già un campo minato pronto a esplodere, ma due eventi sportivi, dove Dražen Petrovic era stato protagonista assoluto, avevano tenuto in qualche modo insieme il Paese: nel 1989 la Jugoslavia aveva dominato il Campionato Europeo giocando una pallacanestro meravigliosa e nel 1990 la nazionale balcanica aveva vinto addirittura il Mondiale. In quelle squadre il miglior amico e compagno di Dražen si chiama Vlade Divac, serbo fino al midollo. Una tensione enorme, dentro e fuori alla squadra, arrivò al punto di rottura proprio ai Mondiali del 1990, pochi secondi dopo la vittoria della Jugoslavia in finale contro l'Unione Sovietica. Un tifoso entra in campo per festeggiare, sventolando una bandiera croata. Vlade Divac se ne accorge, non indugia, la strappa dalle mani del tifoso perché non vuole strumentalizzazioni. Dražen Petrovic non gli perdonerà mai quel gesto. Sul rapporto fra i due, improvvisamente, una coltre di ghiaccio. Dražen e Vlade giocavano entrambi nella Nba, il campionato professionistico americano, ma a casa tutto stava precipitando e ragazzi come loro due, su lati del confine diversi, si prendevano a fucilate. Loro non si sparano, ma quel sodalizio magico personale e professionale si interrompe definitivamente.
Dražen morirà, la Jugoslavia vincerà gli Europei del 1995, i più tristi di sempre, con la Croazia terza (allenata dal fratello maggiore di Petrovic) che se ne andrà dal podio per non sentire l'inno serbo tanto odiato, poi finalmente finirà la guerra. Nel 2010 la Espn, famosa tv sportiva americana, produrrà un documentario meraviglioso, fin dal titolo: "Once Brothers" (Un tempo fratelli). Sono 80 minuti struggenti dove Vlade Divac racconta la sua amicizia, i sogni comuni, le emozioni vissute insieme a Dražen. Entra in ogni dettaglio, qualche volta con gli occhi lucidi. Parla anche di quel gesto, quella bandiera strappata, delle campagne mediatiche che lo avevano fatto diventare l'idolo dei serbi e, soprattutto, il nemico dei croati. Del muro cresciuto fra lui e Dražen, mai scalfito fino alla sua morte. Vlade Divac, in quel documentario, incontra i genitori di Dražen. Tutto è misurato, delicato, commovente alle lacrime.
Il documentario si chiude con il gigante serbo che muove i suoi 216 centimetri in mezzo alla neve con un mazzo di fiori in mano, nel cimitero di Mirogoj a Zagabria. Arriva davanti alla tomba di Dražen e bacia l'immagine di un ragazzo in canottiera e pantaloncini, con il pallone a spicchi fra le mani. Un fotogramma che vale più di un milione di parole e che racconta il rimpianto delle cose non dette o non fatte.