Per capire i rischi del digitale guarda cosa accade in India
Abbiamo così tanta (e giusta) voglia di regole per il digitale che davanti a ciò che ha appena deciso il Governo indiano verrebbe voglia di applaudire (aspettate, però, a farlo). Come ha spiegato Ravi Shankar Prasad, ministro dell'Unione «le società di social media saranno tenute a rimuovere contenuti illegali e violenti e le fake news entro 24 ore». La nuova legge è lunga e articolata. E promette anche di proteggere donne e minori. Nonché «la dignità online degli utenti». Chi non si adeguerà, entro tre mesi, sarà fuori dal mercato indiano. Cioè da una fetta molto importante del business digitale. Per capirci, l'India è il mercato più grande del mondo per YouTube (che nel Paese ha 530milioni di utenti), WhatsApp (422 milioni) Facebook (410 milioni) e Instagram (210 milioni di utenti).
A prima vista, il Governo indiano ha annunciato una serie di restrizioni non così diverse da quelle richieste più volte anche in Europa da politici, esperti e commentatori. Nella nuova legge sono previsti anche meccanismi di sorveglianza, un «codice etico per le notizie online, le piattaforme e i media digitali» e la «rimozione di informazioni illegali» (prima di gioire, continuate a leggere).
Per avere un quadro un po' più completo della questione dobbiamo però fare un salto indietro di qualche settimana. Esattamente al 26 gennaio. Al giorno, cioè, nel quale Nuova Delhi è diventata terreno di scontro tra gli agricoltori indiani e le forze dell'ordine, dopo mesi di proteste dei contadini contro la liberalizzazione del mercato agricolo, prevista «dalla riforma agraria». Cosa c'entra tutto questo col digitale? C'entra, perché – come già accaduto altre volte e in varie parti del mondo – la protesta ha usato i social per aggregarsi ed espandersi. Motivo per cui il governo di Modi ha chiesto a Twitter di bloccare quasi 1.200 account considerati «una minaccia per la sicurezza nazionale». Il social ha rifiutato, anche se l'lndia per Twitter è il terzo mercato più grande, dopo Stati Uniti e Giappone.
Alla luce di tutto questo fa un effetto diverso leggere che «i funzionari del governo ora possono far rimuovere informazioni (notizie comprese – ndr) che ledono l'interesse della sovranità e dell'integrità dell'India e dell'ordine pubblico». Per non parlare della nuova regola che obbliga i social (WhatsApp compreso) «a informare le autorità su chi sia l'autore di un determinato post o di una notizia».
Visto da qui, dall'Italia e dall'Europa, tutto questo ci appare una cosa buona e giusta, nonostante il fatto che per essere attuate alcune di queste regole violeranno la privacy degli utenti (quella stessa privacy che ogni giorno invochiamo a gran voce). Tutti noi, infatti, davanti a una fake news o ad un post particolarmente sgradevole, abbiamo almeno una volta giustamente sperato che esistesse un sistema per colpire chi li aveva creati. Ma cosa accadrebbe se un Governo usasse queste stesse regole, «giuste e democratiche», per limitare la libertà d'opinione o per bloccare i contadini che protestano? E cosa accadrebbe se la stessa legge servisse per fermare film o serie tv americane e/o europee che non piacciono a un Governo che sembra (e non è il solo) sempre più spinto verso una sorta di autarchia digitale?
Se pensate che la questione riguardi solo l'India, sappiate che il governo australiano, nei giorni scorsi, si è confrontato più volte con quello indiano per accordarsi su sistemi in grado di arginare lo strapotere dei colossi digitali (e altri guardano all'India con interesse). Ovviamente c'è differenza tra l'Australia e l'India e tra l'India e certi stati mediorientali o africani, ma il rischio che regole «buone e giuste» scivolino nella censura resta alto. Per tutti. Per questo vanno pensate e ripensate e non calate dall'alto. E per questo non ci devono essere spazi per interpretazioni – diciamo così – «creative» e deve essere molto chiaro chi controlla i controllori.