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L'incubatore degli affetti tenga calda la ripresa

Paolo Massobrio mercoledì 17 giugno 2020
«L'unità di crisi è stata un incubatore di affetti» ha dichiarato Flavio Boraso, direttore generale della Asl Torino3, che ora legge con soddisfazione i dati: zero morti e pochissimi contagi. Lo conosco da trent'anni e durante il lockdown ci siamo sentiti, quando il vigore del virus sembrava perdere forza. Mi chiamò a inizio maggio perché vedeva i segnali della ripartenza, anche degli amati ristoranti che ancora non avevano il via. Gli dissi che se fosse proseguito quel trend, piano piano tutto si sarebbe ricomposto. E avendo iniziato a girare, in Veneto, in Piemonte, in Lombardia, sembra proprio così, anche se occorre disciplina perché sarebbe un disastro la ricaduta. Sul lago stanno tornando i tedeschi, li ho visti a Riva del Garda, mentre i locali che hanno tenuto un rapporto con i clienti ora li accolgono. Si mangia nel dehors del Nastro Azzurro di Verona, dietro l'Arena. Da Felice a Chiavari, domenica a pranzo, c'era il tutto esaurito, pur coi coperti ridotti e le mascherine dei camerieri. C'è voglia di ritrovarsi, questo è indubbio, ma guai se la rincorsa alla normalità facesse dimenticare il sacrificio. Anche il lavoro è cambiato: lo smartworking ti blinda a orari ben definiti per fare una call o seguire un webinar, e un po' rischiano di distoglierti dalla realtà. Basta leggere i giornali: sono spariti gli articoli che fanno riflettere, abbondanti nei mesi centrali, e torna la cronaca spicciola, dalla politica con le tensioni interne ai partiti alle criticità dettate dalle agenzie. E alla ribalta delle cronache tornano le inchieste più spinose, con la delinquenza che rialza la testa: brutto risveglio dopo mesi di sonno obbligato. Leggo la storia di Peppe Lucifora, il cuoco di Modica trovato ucciso a novembre: il caso assomiglia a una puntata del commissario Montalbano. L'ho conosciuto anni fa a Pozzallo: faceva le cene a domicilio ed era bravissimo. L'ultima volta mi portò i dolci di marzapane delle monache di Noto e non mi capacito dell'epilogo. Ora, se è vero che il Covid 19 è stato un incubatore di affetti, l'altra faccia della medaglia è il coperchio di una pentola che fa esplodere la devianza sociale. Per questo non bisogna dimenticare: l'incubatore di affetti deve produrre il bene che tutti vogliamo. Ma dipende da ciascuno di noi. Senza esasperare le situazioni, per tornare sui binari di una socialità prossima alla solidarietà.