L'incontro tra Atene e Gerusalemme, principio di civiltà
Il tentativo di accomunare la fede di Israele e i tesori di civiltà antiche come l'Egitto e la Mesopotamia con la grande letteratura greca è proprio anche di un libretto assai sostanzioso del pensatore russo Sergej Averincev, dal titolo emblematico Atene e Gerusalemme, pubblicato da Donzelli nel 1994. Averincev è stato uno dei più importanti pensatori ortodossi del '900. Nato a Mosca nel 1937 e morto a Vienna nel 2004, ha dedicato opere a Spengler e Maritain, Jung e Huizinga. Uno dei libri più importanti, L'anima e lo specchio, uscì in Italia dal Mulino nel 1988 e affrontava la civiltà di Bisanzio come punto di collegamento fra Occidente e Oriente. Il libro che qui si invita a prendere in mano affronta differenze e punti di contatto fra Antico Testamento e mondo greco.
Nella prima parte del volume Averincev tende a mostrare la contrapposizione fra i testi sapienziali del Vicino Oriente (quelli del popolo di Israele in particolare) e la letteratura greca. Pur non sdegnando di attribuire il riconoscimento di vera letteratura anche a certe pagine degli scritti dell'antico Oriente, dall'epos di Gilgamesh ai salmi penitenziali babilonesi, dagli inni di Aton ai canti dei profeti biblici, per il teologo russo è evidente che rispetto alla poesia dell'antica Grecia si tratta di due cammini differenti, di «fenomeni di ordine concettualmente diverso. I greci non superarono i contigui popoli del Vicino Oriente semplicemente perché non proseguirono il loro cammino, ma andarono in una direzione totalmente diversa». In Grecia per la prima volta la letteratura prese coscienza di sé: di qui il nascere di una teoria stessa della letteratura, della poetica, della filologia stessa. Così, «i metodi e le categorie di Aristotele sono organicamente legati alla struttura artistica dell'Iliade e dell'Edipo re quanto sono privi di senso se applicati al Libro di Isaia o al Romanzo di Akhikar». La Bibbia e la poesia greca differiscono anche sulla concezione dell'universo. Il mondo visto dai greci è "cosmo", un ordine e un sistema regolato da leggi; quello ebraico invece è storia ed eternità, un flusso temporale che ha avuto un inizio e avrà una fine. In forma esplicita o latente, dietro la concezione del tempo dei greci c'è la dottrina dell'eterno ritorno, non un'escatologia.
Ma se nel periodo della loro rispettiva massima fioritura, i tempi di Isaia e Ezechiele, di Omero e di Sofocle, Atene e Gerusalemme non riuscirono a incontrarsi, giunse a poco a poco il momento della loro interazione. Fu dopo le conquiste di Alessandro Magno: all'inizio del III secolo a.C., la cultura ebraica cominciò a destare interesse agli occhi dei greci. Il peripatetico Teofrasto scrisse che «i giudei nel loro complesso sono una stirpe di saggi». E Numenio di Apamea coniò la famosa frase: «Cos'è Platone se non un Mosè che parla greco?». È nel periodo dell'ellenismo insomma che l'atteggiamento dei greci verso la saggezza biblica muta d'accento. L'impresa dei Settanta, la traduzione in greco della Bibbia eseguita verso il 250 a.C., sancirà l'acquisizione da parte greca del millenario tesoro della tradizione giudaica. Atene e Gerusalemme, grazie anche al successivo cristianesimo, si impongono così come i due principii creativi della civiltà, non solo europea.
Ps: dopo Simone Weil (22/12) e Rémi Brague (5/1), con questo libro di Averincev si conclude una tripletta a mio avviso essenziale sui fondamenti dell'Europa. Testi a volte contrastanti ma imprescindibili in questa ricerca dei 50 libri rilevanti per la formazione del cristiano. Ma il discorso non è affatto chiuso.