Qualche giorno fa ho incontrato per strada una persona che non vedevo da anni. «Come va? Il lavoro, la famiglia? Hai ancora la passione per le moto?». «Certo che sì, anche se ora ho meno tempo a disposizione, ho sempre la mia moto granturismo. Durante l'inverno la sistemo e d'estate vado a fare qualche bella gita nella natura». La conversazione è andata avanti qualche minuto, ci siamo raccontati una sintesi le rispettive vite in pochi minuti. Alla fine, salutandoci, ci siamo scambiati i numeri di telefono. «Ti scrivo su Whatsapp, allora!» dico, come se ormai fosse una cosa naturale averlo. «Guarda, ho deciso di non utilizzare queste app. Diventano una dipendenza. Telefonami! Ciao». Dopo lo stupore iniziale questa frase mi ha fatto riflettere. Quanti messaggi istantanei mandiamo ogni giorno? Quante foto, vocali, documenti inviamo dal nostro fantastico smartphone? E con quanta attesa – o ansia? – aspettiamo una risposta veloce, verificando addirittura la fatidica spunta blu? Siamo molto meno capaci, grazie alla tecnologia moderna, di aspettare. Se vogliamo un paio di cuffie le ordiniamo su Internet e ci arrivano in giornata o il giorno dopo. Se vogliamo parlare con una persona le scriviamo e generalmente ci risponde subito. Se cerchiamo una notizia, andiamo su Google e la troviamo all'istante. Tutto questo ci ha fatto perdere la magìa dell'attesa, dell'incognita. Il messaggio nella bottiglia, chiusa e gettata in mare, sembra una tradizione preistorica, lontana dal nostro moderno modo di ragionare. Quanti, nel corso della storia, hanno scritto libri o lettere senza avere la certezza che qualcuno li avrebbe mai letti? La tecnologia è comoda, pratica, e ci fa spesso guadagnare tempo. Eppure rende la nostra vita più monocromatica, con meno emozioni vere, da sentirsi bisbigliare o urlare nell'orecchio. Il messaggino telefonico rimane un testo che scalda solo il nostro bisogno compulsivo di attenzione immediata.