L'impresa "riformista" e il cavallo di Churchill
In questa direzione è molto interessante la lettura de «L'impresa riformista. Lavoro, innovazione, benessere, inclusione» (Egea), l'ultimo saggio di Antonio Calabrò, secondo cui «in una stagione di crisi delle democrazie liberali e delle relazioni tra democrazia e cultura di mercato, sarebbe riduttivo pensare all'impresa esclusivamente come ad una macchina che genera profitto». Per Calabrò l'impresa italiana (e non solo) ha di fronte a sé oggi una sfida inedita e ineludibile, che la proietta come attore protagonista sulla scena della comunità in cui opera: è già e dovrà essere sempre più "riformista".
Associare le imprese ad una categoria di pensiero tipicamente politica può sembrare fuorviante. Ma nella visione di Calabrò non indica la necessità di sostituirsi alle istituzioni e alla politica, bensì quella di porsi come «soggetto politico attivo, che vive nella società e che contribuisce a determinarne le trasformazioni». L'impresa, dunque, come (al tempo stesso) manifesto teorico e realizzazione pratica diffusa nella società di valori come la competizione, il merito, l'innovazione, l'inclusione, l'attenzione all'ambiente, la solidarietà. In visibile e orgogliosa controtendenza rispetto alla mentalità e all'abito culturale dominante nella classe politica. Un esempio per tutti: dopo la rottura del patto generazionale che si è consumata fin dagli anni Ottanta, l'impresa è uno dei pochi ascensori sociali rimasti attivi in Italia come generatore di opportunità per i capaci e i meritevoli.
Al contrario, i messaggi culturali che arrivano dalla politica sembrano indicare il lavoro come non-valore sostanzialmente equivalente alla rendita sociale (lo dimostrano le modalità d'introduzione del reddito di cittadinanza).
L'impresa "riformista" è una risposta interessante ed utile alla crisi di legittimazione e di risultati di questa classe politica. Perché il "cavallo" di Churchill possa liberarsi dei paraocchi e tracciare la strada a beneficio dell'intera comunità.
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