«La vita o è stile o è errore». L'incipit di Passo d'addio, il capolavoro con cui Giovanni Arpino, uno dei massimi scrittori del Novecento, si congedò precocemente dal mondo, è esemplare. Sulle prime potrebbe apparire un'espressione elegante, ironica, dandistica. Il che non sarebbe comunque negativo: il dandy, l'uomo sprezzante del denaro e della volgarità, ispirato dall'eleganza, incarnato massimamente da Baudelaire e Oscar Wilde, non è affatto un damerino, ma un uomo etico. Le sue scarpe devono essere sempre lucide, ma sono l'unico paio che possiede, e nessun cameriere lo attende per lustrarle. Semplicemente il dandy cammina giorno e notte nella strada e non si impolvera, non si fa contaminare da una società di cui detesta il materialismo e la volgarità. Il dandy però ha un limite, storico e geografico: ha senso in Occidente e nell'Ottocento del dominio e del conformismo borghese. La frase di Arpino invece è universale: senza stile non vive una comunità africana, boscimana, senza stile, che vuol dire equilibrio, misura, sensibilità, rispetto, non si regola l'esistenza di un monastero tibetano o trappista. Lo stile è adeguamento a una superiore armonia. Ed è nutrito di compassione: Arpino non scrive «o stile o vergogna». No, «errore». Da cui ci si può riprendere, a cui si può rimediare. Lo stile è indissolubile dalla pietà.