Bene l'olio, male il prosciutto. L'agroalimentare nazionale vive contemporaneamente queste due situazioni opposte. È il risultato di dinamiche commerciali diverse che toccano però alcuni dei migliori nomi dell'agroalimentare nazionale. Ed è, soprattutto, il segno di quanto siano delicati gli equilibri di mercato per il settore che rischia miliardi di fatturato e migliaia di posti di lavoro.L'olio vince, almeno in uno dei mercati più promettenti al mondo: quello cinese. Secondo le stime dell'Unaprol, infatti, nel primo semestre del 2013 la Cina ha importato complessivamente circa 17.000 tonnellate di olio e l'Italia ha aumentato del 7% le proprie vendite. In questo modo il nostro Paese - con 4mila tonnellate di prodotto - occupa la seconda posizione come fornitore dopo la Spagna e ha una quota di mercato pari al 24% in quantità e 23% in valore. E gli spazi per crescere pare siano ancora molto ampi e importanti. Per questo, Unaprol e governo (aiutati dalla collaborazione logistica di Veronafiere), sono impegnati in una serie di azioni di promozione e sostegno del prodotto. Ma l'agroalimentare italiano è fatto anche d'altro. Mentre gli olivicoltori, almeno in Cina, cantano vittoria (ma intanto in Europa chiedono a gran voce decisione chiare a Bruxelles in tema di etichette), gli allevatori di suini e le industrie di trasformazione sono in guerra contro gli Usa. Proprio quando l'Unione europea ha iniziato le trattative per l'accordo di libero scambio e, formalmente, gli Stati Uniti hanno eliminato, dal 28 maggio scorso, il divieto di esportazione per i salumi a breve stagionatura, nuovi cavilli tecnici stanno bloccando le vendite oltreoceano dei nostri prosciutti. Negli ultimi mesi, ha rilevato l'Assica (l'associazione industriale delle Carni e dei Salumi), c'è stato un inasprirsi delle barriere tecniche che, facendo forza sulla differente normativa sanitaria, da un lato stanno accrescendo in maniera esponenziale i costi di esportazione, dall'altro stanno impedendo che le aperture formali degli ultimi mesi si traducano in esportazioni reali.Il risultato? I nostri prosciutti stazionano nei magazzini delle dogane accrescendo di migliaia di dollari i costi dell'export che diventa addirittura antieconomico. Una situazione che pare stia diventando esplosiva, tanto da far chiedere al governo un intervento immediato. Anche perché a rischiare, a questo punto, sarebbe pure il mercato interno già in una situazione di stallo. E, come per l'olio, anche in questo caso si parla di miliardi di euro. Basta pensare che il settore dei salumi esporta per oltre 1,1 miliardi nel mondo e gli Usa rappresentano ormai un mercato insostituibile, arrivando in alcuni casi ad essere la principale destinazione per alcuni nostri prodotti (come il Prosciutto di Parma) e che complessivamente conta per circa 68,1 milioni di euro (+ 29,7% rispetto al 2012).Insomma, per i suinicoltori proprio gli Stati Uniti sono diventati il primo mercato extra Ue che, adesso, potrebbe saltare.