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L'erronea filosofia del semaforo rosso

Pier Giorgio Liverani domenica 2 dicembre 2012
«Non serve filosofare davanti a un semaforo rosso. Non c'è bisogno dei massimi sistemi per le leggi del vivere comune. Né di tirare in ballo l'etica». Questo titolo è la sintesi ufficiale della tesi che il filosofo Gianni Vattimo esponeva su La Stampa (il 22 novembre) per sostenere, in sostanza, che non c'è bisogno nemmeno di parlare di verità, quando dovrebbe essere palese che questa coincide con la realtà. Per esempio: «Provate a sostituire "realtà" con "verità" nella frase evangelica "la verità vi farà liberi"». Bene: qui casca il filosofo. Proprio la realtà, infatti, è spesso menzognera ed è l'etica che ce lo svela, specialmente quando la realtà è fatta di parole, di idee, di azioni, di comportamenti. E proprio le parole sono menzognere. Prendiamo il caso di qualche realtà "eticamente sensibile": per esempio i cosiddetti "diritti civili" (divorzio, aborto, manipolazioni genetiche, eutanasia, diritto di non nascere e di morire… la lista è lunga). Sono certamente realtà, ma palesemente non verità. La verità è un concetto troppo alto perché sia messo alla pari con la realtà, salvo che non si tratti di una realtà metafisica o di fede. L'unica differenza che il filosofo trova tra realtà e verità, è che «questa è sempre detta» mentre la prima «è lì davanti e basta». No: la verità è «detta» perché in genere esiste a un livello superiore a quello della realtà (p. es. l'etica e soprattutto Dio), ma non per questo si può dire inesistente. Né vale l'argomento che «qualunque cocciuto ermeneutico ha sufficienti mezzi per distinguere le bugie dalle verità, senza aver bisogno di metri assoluti», perché proprio i mutamenti (i progressi?) della realtà hanno sempre maggior bisogno di quei metri «veri» che all'ermeneutico dicono di fermarsi quando il semaforo è rosso.LA CADUTA DELLO SCRITTOREAldo Busi, che si dipinge come un grande scrittore, anzi come il top dell'arte letteraria, è approdato dal terrazzo dell'Hotel Excelsior di Roma al Pubblico quotidiano. Un bel capitombolo, da lasciarci la pelle (di scrittore). L'intervistatore non fa che lusingarlo: «Pasolini diceva che il successo è l'altra faccia della persecuzione. Si sente un Cristo in croce?». Busi: «Essere associato a questa immagine mi seccherebbe. Cristo era una specie di Wanda Osiris della Palestina… Io lo definirei donna insieme a quei dodici apostoli». Suggeritore: «Un po' Biancaneve e i dodici nani». Risposta: «Sì, era una Biancaneve con i dodici tarchiatoni». E poi: «Quando mi si dice "questa cosa qua sembra uscita dal vangelo…". Il vangelo non è il terminal della vita. Ha creato l'ipocrisia di Stato. "Vivete nascosti, l'apparenza è quella che conta". Il Paese è alla deriva perché è un paese di criminali cattolici». Se non fosse blasfemia, sarebbe da ridere, ma di pena. Chissà, forse Busi ha letto il Vangelo una volta e alla rovescia, come l'arabo e l'ebraico. Si capisce che dica «dormo molto poco e faccio dei sogni che non mi piacciono». Due colonne di autocelebrazione. Ma chi si loda s'imbroda: «Sono un morto civile». Ha scritto il libro su una panchina delle Ramble di Barcellona, forse perché nemo propheta in patria. Ma lui stava in Spagna…