Forse assetati, forse camuffando un imbarazzo che ci strazia, sentendoci incredibilmente soli anche se accompagnati da persone, simboli e cibarie, ci accostiamo alla mangiatoia e ci domandiamo: “Perché siamo qui?”, “In che modo il mistero che qui si narra intercetta la nostra vita?”, “Che cosa possiamo segretamente sperare da tutto questo?”. L’unica ragione valida per stare qui è forse una ragione che fatichiamo a riconoscere: abbiamo bisogno di un salvatore. Ognuno di noi ha bisogno di essere salvato da una solitudine fondamentale, ontologica, irremovibile. La vita ha bisogno di essere liberata. Altrimenti, il nostro viaggio sarebbe solo incompiutezza, una sorta di ferita sempre aperta, una domanda senza risposta. Sarebbe come restare a insistere davanti a una porta ostinatamente chiusa o in una notte che non arriva a conoscere la metamorfosi aurorale.
Anche a chi non crede la mangiatoia ripete il suo annuncio: che Dio ci ha dato un salvatore. E lo dice con un linguaggio che può essere inteso universalmente. Questo salvatore in effetti prende la nostra carne, fa proprie le nostre traiettorie, condivide le nostre speranze e scoramenti, i suoi passi calpestano questo mondo, con esso vibra, ama e soffre e, come qualsiasi essere umano, si ritrova tante volte ferito. E la nostra vita non solo comincia a valere di più: si trasforma anche in un’altra cosa. Acquista un senso, prende una forza, riceve un entusiasmo che solo Dio è capace di accendere.
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