Rubriche

L'elogio del liberale che punta alla ricchezza per donare agli altri

Fabrice Hadjadj domenica 30 luglio 2017
In quest'ultima rubrica devo fare pubblica ammenda. Nelle precedenti rubriche ho spesso avuto la tendenza di trattare malamente l'aggettivo “liberale”. Ne ho fatto un epiteto infamante. Il segno di un appassimento, di una perdita di umanità. I dirigenti d'impresa mi perdonino. Sinceramente. E mi scusino anche. Perché l'uso delle parole si è molto corrotto da quando comunichiamo così perfettamente grazie al sabir globale mediatico-commerciale. E così, seguendo Laudato si', ho denunciato il «paradigma tecno-economico», anche se io difendo proprio la tecnica e l'economia, e cioè il savoir-faire e la produzione familiare o di prossimità. Parimenti ho attaccato il “digitale”, e tuttavia, il mio scopo è proprio la digitalità, la digitalizzazione piena e concreta, e cioè l'attività rinnovata delle nostre dieci dita, per suonare il pianoforte, coltivare le zucchine, piantare un chiodo o cambiare il pannolino a un bambino, e non solo spingere sui pulsanti senza pressione dei nostri che si vorrebbero schermi tattili. Infine ho considerato i liberali come avversari… Ma la liberalità non è forse la virtù per eccellenza per regolare il nostro rapporto con la ricchezza? E non bisogna amare la libertà – oso dirlo – più della felicità? Comincio da quest'ultimo punto, tenuto abbastanza in scarsa considerazione dai cristiani di oggi. Dato che l'individualismo esalta il libero-arbitrio fino a farne il creatore dei valori, che il consumismo ci offre l'imbarazzo della scelta davanti ai suoi scaffali, che il rigetto della Chiesa e il disprezzo della famiglia si operano al nome dell'autonomia del soggetto, abbiamo preso la spiacevole abitudine di diffidare della libertà e ci siamo adattati al ribasso a sermoni del tipo: «Saranno forse liberi, ma sono infelici. Sottomettendoci a Dio, alle sue Leggi, alla sua santa Volontà, noi, almeno, abbiamo la gioia, guadagniamo la beatitudine, ecc.». Così facendo, tuttavia, non siamo più cristiani, ma musulmani, il rapporto con Dio essendo pensato innanzitutto come “sottomissione”, islam, in arabo; e votiamo noi stessi a ciò che volevamo criticare, poiché il consumismo non smette di assoggettare la libertà al benessere. Di fatto, una beatitudine senza libertà corrisponde a un benessere da legumi o da bestiame da ingrasso. Rousseau ha proprio ragione quando, all'inizio del suo Contratto Sociale, scrive contro Hobbes: «I Greci rinchiusi nell'antro del Ciclope ci vivevano tranquilli, aspettando che venisse il loro turno di essere divorati. […] Rinunciare alla propria libertà [in cambio della sicurezza o della felicità] significa rinunciare alla propria qualità di uomo, ai diritti dell'umanità, anzi ai propri doveri». Ed è proprio quello che ci fa comodo e che ci fa cedere sempre più terreno al management informatico del mondo: vogliamo sbarazzarci dei nostri doveri, della nostra responsabilità, di una vera decisione che impegnerebbe la nostra esistenza nella buona e nella cattiva sorte... Ma Cristo non dice che bisogna sottoporsi alla Verità. Dice che la Verità ci farà liberi. E San Paolo esalta ai suoi corrispondenti «la libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8, 21) spingendosi fino a questa affermazione che riassume la Pentecoste: «dove c'è lo Spirito del Signore c'è libertà» (2 Co 3,17). Questa è la salvezza, l'esatto contrario di un islam, perché è essenzialmente liberazione e non sottomissione. Saremo dunque come gli Ebrei pronti a tornare in schiavitù? Rimpiangeremo i cocomeri, «i meloni, i porri, le cipolle e l'aglio d'Egitto» (Nb 11, 5), giacché l'apprendistato della libertà esige che passiamo attraverso il deserto, la solitudine della responsabilità, l'inventiva della missione, non avendo altro cibo che la manna (man ou - «che cos'è?») e cioè l'interrogativo divino? Liberi, si tratta di essere liberali. Perché la libertà non sta tanto nel fatto di scegliere (cosa che si potrebbe fare molto bene sul catalogo di un supermercato con consegna a domicilio) quanto nell'essere abbastanza potenti per essere attivi e fecondi. Tommaso d'Aquino presenta la liberalità come la virtù che sta nel giusto mezzo tra i due vizi contrari che sono l'avarizia e la prodigalità. Citando Aristotele dice: «È proprio dell'uomo liberale dare con sovrabbondanza». Ecco perché quest'uomo intraprende e cerca di procurarsi ricchezze, non per accumularle né per sciuparle ostentandole, ma per essere generoso con gli altri. Non provvede soltanto ai suoi bisogni e a quelli dei suoi cari e supera in questo l'economia di sussistenza per andare verso un'economia del profitto. Ma tale profitto – veramente profittevole alla sua natura sociale – è di profusione. Il vero liberale, infatti, non si accontenta della giusta retribuzione, del giusto prezzo o del giusto stipendio. Vuole essere ricco come una sorgente, come il sole, come Dio stesso la cui lussureggiante libertà è di essere provvidenza per sue creature: «La liberalità – precisa san Tommaso – sebbene non miri a soddisfare, come la giustizia, un debito legale, tuttavia mira a soddisfare un debito morale, imposto dalla decenza del soggetto medesimo, e non da un diritto altrui. Essa quindi conserva solo in minima parte l'aspetto di cosa dovuta». Incontriamo qui ciò che George Orwell chiama common decency. La decenza comune è riconoscersi in debito con qualcuno che non ha nessun credito verso di noi, semplicemente perché è il nostro prossimo, e che le ricchezze materiali sono meno divine della ricchezza spirituale del donare. Basterebbe che il liberismo diventasse infine ciò che deve essere, fondandosi sulla virtù della liberalità (e non rovesciandola in nome della favola secondo la quale i vizi privati fanno la prosperità pubblica) ed il titolo di “liberale” sarebbe il più elogiativo che si possa assegnare.

(Con questo articolo si chiude la rubrica “Ultime notizie dell'uomo”,
curata per “Avvenire” dall'intellettuale francese Fabrice Hadjadj
e tradotta da Ugo Moschella.
Tutte le uscite sono disponibili sul sito www.avvenire.it)