La gente di sinistra ha l'abitudine di denigrare i padroni; quella di destra, di esaltarli. I cristiani, avendo ciascuno un “santo patrono”, li accettano a patto che essi “mettano la persona al centro dell'impresa” e pratichino “l'etica degli affari”, vale a dire che assumano e licenzino facendo appello alla nozione di “bene comune”. Quanto a me, stavo per fare una critica del padronato nella debita forma, quando mi sono accorto che io stesso sono il direttore di un istituto accademico, una specie di padrone dunque che produce vento (o più precisamente che aspira l'aria per poi espellerla arricchita di suoni articolati). Questa scoperta mi ha spinto a un certo ritegno. Tanto più che mi sono anche reso conto che il grande nemico dei padroni è il “leader sindacale”. Ora, se dovessi scegliere tra le due denominazioni, “padrone” o “leader”, credo di preferire ancora “padrone”, più antico, più latino. Non ignoro che va di moda la “leadership cristiana”. È possibile oggi leggere testi dal titolo: “Mosé era il leader per eccellenza”. O assistere a conferenze sul tema “Essere un leader provoc-attore secondo Gesù Cristo” . E così i discepoli in cammino continuano a discutere per sapere chi sia il primo… Certamente, la parola “leader” significa «colui che guida». Si dice “duce” in italiano e fürher in tedesco, e questo ha un certo potere di seduzione su un vecchio agitatore socialista o un candidato rifiutato all'accademia delle Belle Arti. La parola “padrone” significa invece «protettore». Ricorda anche la paternità che tollera figli turbolenti e ribelli, mentre la leadership richiede followers affascinati. Paul Claudel ammirava i padroni. Li vedeva come persone positive, impegnate, motivate sia dal gusto del profitto che dallo slancio della speranza. Soprattutto, constatava che «la loro incapacità li elimina meccanicamente», e questo non è il caso per letterati e professori che possono limitarsi a parlare e non devono fare i conti con i risultati. Il poeta Claudel tuttavia appartiene ancora all'età familiare e eroica del capitale. Con lo sviluppo industriale e in seguito con il fordismo, compaiono le “multinazionali” e il “grande padrone” e sembra che questo implichi una contraddizione in termini. A partire da una certa scala, si può avere un sistema di protezione sociale, ma non si può più avere un protettore. La figura paterna cede il posto a quella del presidente - direttore generale in cima alla sua torre, ora venerato come un dio, ora schernito come un diavolo. Ma noi siamo già andati oltre. Abbiamo denunciato irrevocabilmente ogni “paternalismo” come puerilizzante. I dirigenti stessi, vergognandosi del nome di padrone, sono ormai “imprenditori” o addirittura “creatori di ricchezza”. Difendono anche l' “olocrazia” o “management orizzontale”; di questi termini ho trovato la seguente spiegazione in una rivista indigeribile e specializzata: «L'autorità e le prese di decisioni appartengono ai salariati e alle squadre autogestite. Ciascuno è autonomo e sceglie le sue missioni, sempre rispettando l'allineamento strategico dell'impresa. Gli impiegati aderiscono a una visione comune. La comunicazione e la cultura di impresa sono dunque valori centrali che uniscono la squadra». Nel libro Il Nuovo Spirito del Capitalismo, pubblicato nel 1999, Luc Boltanski e Eve Chiapello hanno mostrato come il capitalismo avesse integrato la requisitoria libertaria - quella “critica artista” o addirittura anarchica che lo attacca nel nome dell'autonomia e dell'autenticità. Grazie ai suoi avversari, con la sua plasticità fantastica, il capitalismo si è dunque fatto un pelle nuova. I sessantottini si sono riciclati nella pubblicità. L'autonomia e l'autenticità sono diventate la caratterizzazione principale delle merci attuali, così come i “valori centrali” di industrie come Apple, Nestlé, Coca-Cola, ecc. Boltanski e Chiapello fanno capire che i padroni costituiscono una specie in via di estinzione: «Il mondo del lavoro ormai conosce soltanto delle istanze individuali connesse in rete.. […] Questo cambiamento è consistito nel sostituire l'autocontrollo al controllo e in questo modo esternalizzare i costi molto elevati del controllo, spostando il peso dell'organizzazione sui salariati». Non sono più il padrone o il caposquadra che garantiscono la sorveglianza. Nel “nuovo spirito del capitalismo”, ci si controlla gli uni gli altri, (la convivialità dell'open space serve anche a questo), si spia la défaillance del caro collega, si entra in una competizione neo-darwiniana. Nessuno è più responsabile dell'eliminazione di un salariato, è colpa della selezione naturale. L'elogio dell'autonomia e della rete è dunque non solo in accordo col cost-killing ma anche con la “flessibilità”, vale a dire con la possibilità di essere messo alla porta dall'oggi all'indomani, dicendo a se stessi che si non si è stati veramente licenziati, ma che ci si è in qualche modo “auto-esclusi” dell'organismo competitivo. Il tempo dei padroni ci appare all'improvviso come un'età dell' oro. Si poteva esigere allora una protezione personale. Si poteva accusare qualcuno. Ed ecco, in fondo, ciò che mi ha impedito di fare la mia critica del padronato: non ci sono più padroni, là dove domina il tecnoliberalismo. La finanziarizzazione e la “managerizzazione” dell'economia ne hanno causato la sparizione. Si trovano soltanto “uomini connessionisti”, presi tra gli speculatori e i manager, gli uni che promuovono lo shareholding, gli altri, il team-building. L'impresa è orfana. Non ha più né padre né protettore. Non ci resta che pregare san Giuseppe, patrono dei lavoratori.