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L'eleganza non è superflua (e la tuta è come un burkini)

Fabrice Hadjadj domenica 20 novembre 2016
Capita spesso che mia moglie, dopo avermi reso noto che la camicia che ho addosso non si accorda affatto con i miei pantaloni, mi chieda se l'abito che indossa le stia bene. Sto ancora cambiandomi la camicia, fidandomi interamente del suo gusto, ed ecco che lei improvvisamente si affida al mio, senza accorgersi della contraddizione.
Ma il mistero non finisce qui. Frequentemente le dico che la trovo bella e che ai miei occhi non ha bisogno di truccarsi né di prendere tanta cura della sua toeletta. Nonostante questo, lei continua a sistemare la sua parure e a esitare tra due paia di orecchini. Per chi dunque, se non per me? C'è forse una seduttrice che cova sotto la sposa fedele, figlia di Eva e dunque sempre, vagamente, lontanamente, instrumentum diaboli?
Può essere allora che non sia per altri uomini, ma per le sue consorelle? Un indizio ce lo danno le riviste femminili. Perché se le riviste maschili più tradizionali consegnano donne denudate alla brama dei nostri sguardi, anche le riviste femminili mostrano donne, e non uomini, e piuttosto vestite. Difficile allora non pensare a una rivalità selvaggia tra femmine che, pettinandosi delicatamente i capelli tendono invece a strapparli alle altre.
Il problema è che questo interesse per i vestiti non diminuisce quando la mia bella resta a casa tutto il giorno. Non dipende dallo sguardo delle altre donne. Dal suo allora? Certo, ogni volta che passa davanti a uno specchio lei si guarda con la coda dell'occhio. Narcisismo forse? E tuttavia, se lei mira se stessa, rare sono le volte in cui si ammira. È come se coltivasse la sua apparenza non per vanità (poiché la cultura corrente la spinge ad accusarsi di non essere all'altezza), ma per l'apparenza stessa quasi che questa fosse una divinità severa e capricciosa.
E qui un'altra accusa non manca di levarsi, quella di superficialità, di sottomissione alla moda, di universalizzazione dei diritti dell'uomo-sandwich, di interiorizzazione dell'imperativo borghese di essere presentabile conformemente ai valori attuali del mercato, e cioè di esibire, come un tabellone della Borsa valori, le marche che hanno un forte fatturato. E tuttavia, se questo abuso è frequente, non permette di spiegare il fenomeno, soprattutto «quando si conosce il tempo dedicato alla decorazione nelle società dette primitive». Qualche petto nudo non deve farci dimenticare le pitture, le piume, le pelli, le pietruzze cangianti e i peli multicolori con cui si adorna il corpo del sedicente selvaggio, ben più raffinato e fantasioso che l'elegante di oggi.
Bisogna dunque ammettere che questo fenomeno sia primordiale. Giudichiamo troppo rapidamente la civetteria come un vizio; essa contiene nella sua essenza qualche cosa di puro, di primario, che non deve essere giustificato, ma che al contrario illumina tutto il resto. Di fatto è in gioco l'apparizione del femminino e questa apparizione è senza dubbio l'apparizione cardinale, tanto dal punto di vista erotico (Venere) che da quello religioso (Maria), l'apparizione che fa passare Adamo dal dare il nome agli animali all'esclamazione di fronte all'altro sesso.
Ma qual è il senso profondo di questa apparizione? Jean-Paul Sartre lo chiama
«malafede». Secondo lui l'esistenza umana, che non ha essenza, non ha natura, si realizza interamente nell'artificio, attraverso le costruzioni della libertà. La vanitosa lo dimostra in modo speciale: essa cerca di essere oggetto, mentre è un soggetto; si sforza di esprimersi in una determinazione visibile, mentre è una coscienza indeterminata. La sua «malafede» corrisponde al tentativo costante di porsi come una cosa ben definita, per fuggire davanti all'angoscia di essere niente, niente altro che ciò che facciamo delle nostre vite attraverso le nostre scelte.
È il suo strabismo isotopico che trascina Sartre a ricondurre tutto a un'angoscia originaria e a provare davanti alla forma dell'albero, come a quella della seduttrice, solo una nausea che si vorrebbe metafisica? Henri Raynal è all'opposto di Sartre e ancor più che all'opposto: al di sotto e al di sopra, nello sguardo diretto e umile dello stupito che nel suo prosternarsi, nella sua stessa ingenuità, accoglie l'avvenimento del reale e si trova così elevato molto al si sopra di quelli che pratica la diffidenza.
Raynal prende in considerazione laddove Sartre si limita a squadrare e, credendo di mettere a nudo, cade solamente sul vuoto. Così che mentre Sartre si angoscia, Raynal non smette di giubilare. Certamente, la civetteria può avere a che fare
con la soddisfazione di piacere al gallo, di rivaleggiare con successo con la pollastra, di diventare un feticcio del mercato del bestiame. Ma più fondamentalmente essa appartiene a quel movimento generale dell'essere verso la luce che corrisponde esattamente a ciò che gli Antichi designavano con il nome di physis, che non è innanzitutto un insieme di funzioni che lottano contro la morte, ma il potere di generare forme, species – parola latina che si riferisce alla varietà e alla bellezza.
Così, attraverso gli artifici del vestito, la donna è più naturale. Prolunga ciò che costituisce lo sviluppo stesso della natura nella sua vitalità: far sbocciare fiori diversi, dispiegare l'insieme dei rami di un albero riconoscibile tra tutti, mostrare la tigre, lo struzzo, la lontra, come altrettante apparizioni gratuite e necessarie, inutili e generose. Truccarsi, profumarsi, è voler fare mostra di sé, ma è anche rendere testimonianza alla creazione. La donna si avvolge del cosmo (è il vero senso di cosmesi) e ne prosegue la ramificazione verso nuove foglie e nuovi frutti.
Quella cosa per cui non abbiamo termine migliore di "civetteria" e per la quale Raynal forgia il neologismo apparure, attiene in verità a una modestia essenziale (pre-morale). Il narcisismo stesso della persona è lo strumento di un potere che la investe e che vuole mettere al mondo una nuova forma originale e vivente, più folle ancora dell'ornitorinco o della talpa dal muso stellato. Attraverso il taglio e le ondulazioni della veste si manifesta «una pratica artistica dove l'artificio prende vita», «un'opera (costruzione mobile, vibratile, fluida scultura, quadro astratto che respira, dove corre un'onda) che fa talmente corpo con il suo autore da diventarne l'aspetto».
L'elogio non va soltanto all'opulenza di stoffe, merletti e guardinfanti. Si pronuncia altrettanto bene in favore dell'abito semplice, della purezza monastica, purché si tratti ancora di un'apparizione viva. Il male non sta nella semplicità ma in un doppio schiacciamento: quello della cappa puritana e quello della veste hi-tech. «L'apparure che aggiunge la diversità delle incarnazioni di una stessa persona all'estrema diversificazione che è il proprio della nostra specie, l'apparure rischia di essere inghiottita sotto la proliferazione dei neo-vestiti derivati dalle tute sportive, fabbricati a milioni di esemplari per tutto il pianeta, facilmente standardizzati perché non intrattengono più nessuna relazione con l'architettura del corpo, se non quella funzionale, utilitaristica». Così non c'è solo il burka per distruggere l'apparizione del femminino, c'è anche il jogging. E se il burkini è così tremendo, è perché li coniuga entrambi, operando la congiunzione del sacco islamico e del neo-vestito del tecnicismo laico.