L'eco dell'onda sulla roccia nei versi di Robin Robertson
Con Robertson si riapre il tema (problema) del rapporto tra poesia e paesaggio. I grandi poeti del 900 sono quasi sempre caratterizzati da una localizzazione precisa: la Liguria calcinata di Montale, gli scenari urbani di Eliot, la Sicilia o la Milano bombardata del primo e del secondo Quasimodo, e così via, anche attraverso le Langhe di Pavese.
Di Robertson restano impressi certi panorami rocciosi a picco sul mare, di Scozia, appunto, o della Cornovaglia, e con tale vivezza che pare di sentire lo sciabordio dell'onda sulla scogliera del fiordo. La luce è livida, filtrata da nuvole oscure, prevalentemente invernale, con immagini indimenticabili come «le lampadine bruciate del tramonto». Poesia visiva, dunque? Sì e no. Piuttosto l'oggettivazione di un panorama interiore che si rapprende in boschi, sassi, animali che diventato muti testimoni del mistero. Perché, in Robertson, la natura è popolata animisticamente, secondo l'altra passione del poeta: la rivisitazione dei miti.
E se in Camera obscura avevamo trovato la storia-tragedia di Marsia, nel nuovo libro abbiamo uno straordinario poemetto sulla morte di Atteone, il giovane cacciatore che casualmente scopre la nudità di Artemide che si bagna con le ancelle, e viene dalla dea trasformato in cervo che sarà straziato dai cani di Atteone stesso. L'episodio raccontato da Ovidio nelle Metamorfosi è collocato da Robertson in un senza-tempo estremamente attuale, con i cani chiamati con il loro singolo nome tradotto da Bacigalupo con bella fantasia, nella furia di compiere il loro dovere di morte nei confronti del cervo, per amore di un padrone che non sanno di stare divorando, poi inquieti di non riuscire a rintracciarlo.
E, per un altro mito, le pelli di foca dei selkie, creature anfibie delle leggende celtiche, sono le stesse che mimetizzano Menelao e i tre compagni in agguato sulla spiaggia di Pharos per costringere Proteo a spezzare l'incantesimo che li tiene imprigionati sull'isola. Anche in questo caso la distanza spazio-temporale è annullata, secondo le risorse perenni della poesia.
Robertson offre anche traduzioni ri-creazioni di tre celeberrime poesie di Montale, Meriggiare pallido e assorto, La casa dei doganieri e L'anguilla. Quest'ultima è un vertice del virtuosismo tecnico di Montale e chissà se Robertson avrà colto il doppiosenso gnostico che vi è sotteso: la vita che nasce dallo sfacelo, la forzatura dell'abiezione per propiziare la rinascita.
Nel libro vi sono anche immedesimazioni letterarie che vanno al di là delle predilezioni di gusto: di Strindberg a Londra o a Parigi, Robertson rivive lo spaesamento; e l'Ode alla zuppa di grongo, di Neruda, è tradotta non per tramandare una ricetta culinaria, ma per un omaggio al poeta cileno.
A conferma che la letteralità è la via regale anche nelle traduzioni d'autore, ecco i «triangulating gulls» splendidamente resi da Bacigalupo come «gabbiani triangolanti». Invece, «meet me / on the broken branch», tradotto «aspettami / sul ramo in rovina» aggiunge un lirismo superfluo rispetto all'asciutto «aspettami / sul ramo spezzato» che rende ulteriormente periclitante l'ardita immagine.