Quando poi di Milano, della sua frenesia, di fashion week e monopattini non ne posso più, vado a Roma. Tre ore, un altro mondo. Un altro cielo: mi sorprende sempre come il cielo di Roma sia di un azzurro netto. La vicinanza del mare? Il Ponentino, che la sera si porta via i fumi della città? La fine di settembre, fuori da Termini, che blu: ora più chiaro, con un accento appena, mite, di autunno. L’ho sempre amata, fino da quando a tredici anni mi ci portò mio padre. Tre giorni di aprile come in un sogno: il Palatino, Navona, e quel centro di piazza san Pietro in cui le colonne si allineavano, perfette, un esercito disciplinato. Era notte quando mio padre mi accompagnò in quel punto del Colonnato, rivedo le colonne bianche nella luce dei lampioni. Mi sembrò un luogo dove il caos si riordinava, al gesto di un misterioso padrone.
Da allora torno a Roma quando ho urgenza di bellezza. Campo de’ Fiori la mattina, il mercato che allinea frutta e verdure lucenti come gioielli. La gran fontana dell’Acqua Paola al Gianicolo, il suo scrosciare generoso. Santa Sabina all’Aventino, la maestà severa della Basilica dove il Papa va nel giorno delle Ceneri; e un certo Crocifisso spoglio, in fondo a una navata, che mi è caro, e mi aspetta. Sotto l’Aventino, il verde opaco del Tevere che scorre, pigro, regalmente indifferente al Tempo.
Il Tempo: il segreto di Roma è la sua insolente resilienza al Tempo. Milano è in continua implacabile metamorfosi, alza torri di cristallo dove, quando ero bambina, piantavano le tende i circhi: e ogni volta che passo mi sento vecchia. Roma invece gronda di secoli, tanto che posso credere di essere ancora bambina. Forse è per questo che appena arrivo comincio a sorridere; già in un bar, al solo sentire quell’accento un po’sfacciato, irridente quasi, in una umana saggezza ereditata.
E non è che non li veda, i cassonetti traboccanti di immondizia. Ma per i vicoli tra il Pantheon e Navona leggo sui muri, scolpite nel marmo, decine di grida in cui remoti governatori e prefetti intimano di non gettare monnezza, e minacciano ai trasgressori gravi pene. E date, inscritte in numeri romani, di anni lontanissimi, e firme di potenti dimenticati. (Una faccenda millenaria la monnezza nell’Urbe, e un’anarchia, forse, al fondo - ma pigra, come l’acqua lenta del Tevere). Roma mi colma il cuore. La luce, i suoi angeli di marmo a guardia, le ali spiegate, sulla moltitudine che ne calpesta ogni giorno il suolo. Sulle romane biondissime, eredi di invasori Visigoti, e su quelle brune, gli occhi neri come sull’altra riva del Mediterraneo. Sulla folla di giapponesi, tedeschi, americani in coda a San Pietro, e sui giovani neri che mendicano agli angoli. (Quella mamma, ieri, africana, un neonato legato sulla schiena e una bambina piccolissima per mano. Che sarà, mi sono chiesta, di quei figli? Cosa saranno, in questa Città eterna, quando io non ci sarò più a guardarla? E ho sognato per un istante che un futuro Papa sia viandante oggi, in fasce, per Roma, sulle spalle di una mamma mendicante). L’aria di questa città ti ubriaca, mi sono detta, tornando alla realtà. Sì, come un’ebbrezza, come una strana tenerezza per gli sconosciuti, per i vecchi che osservo sugli autobus, cercando di decifrarne le rughe.
Quando sono stanca entro in una chiesa, mille oasi di ombra generosamente offerte. Che pace. Poi leggo lapidi, esploro affreschi e scopro nuove storie. Una miniera di storie di uomini questa città, vive nelle sue pietre.
Mi sono ripromessa di entrare in tutte quelle chiese, ma non credo ne avrò il tempo. Ritorno appena posso, e a Termini alzo gli occhi: l’azzurro immenso del cielo sopra Roma, per sempre - mentre noi passiamo.
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