La piccola auto rossa è schiacciata come un insetto calpestato. Non c’era nebbia, non pioveva l’altra mattina sulla A4 da Torino in direzione Milano, verso il casello Ghisolfa. Come è stato? Un brusco rallentamento, i mastodontici Tir che frenano fischiando, si fermano: e quell’utilitaria e un’altra prese in mezzo, schiacciate quasi in una pressa. Morte sul colpo una cinquantenne e la nipote di quindici anni. Andavano a Milano. Da un medico? O forse, a guardare le vetrine della primavera? L’altra vittima, una ragazza, aveva trent’anni. Aveva due cani, sui sedili posteriori. I cani non si sono fatti niente.
Quel tratto tra Novara e Milano l’ho fatto mille volte, e quando vedo “Arluno” mi rilasso, sono arrivata, dieci minuti e sono a casa. La carcassa di un piccola vettura rossa fiammante però mi rinnova un dubbio che fa male. Perché parrebbe, a guardare quelle foto, che siamo dentro a un puro Caso, in mano a una Parca che cieca, indifferente tesse o taglia i nostri fili. Ora, io sono vecchia abbastanza per andarmene, ma i miei figli, no. E ogni sera, ogni weekend li so in giro in auto. So che sono prudenti. Ma, se arrivi nell’istante in cui una colonna di Tir frena di colpo? (Quella foto, non avrei dovuto guardarla).
E il dubbio rode, rode davvero come un tarlo. Non sarà, non è possibile che siamo dentro a un Caso, noi tutti. Non può essere nato nel Caso il nipote di un mese che al pomeriggio mi dorme in braccio, fiducioso. Sarebbe terribile, nascere dentro al Caso. Come bottiglie galleggianti nell’oceano, o come se, oltre all’Enalotto, un’altra lotteria, ogni settimana, estraesse dei numeri: e qualcuno ha il biglietto in tasca, proprio quel biglietto.
Lo so bene, che questa è una concezione del mondo da senza Dio, da pagani. Nonostante la mia fede vedo a tratti risorgere, tuttavia, in me e in altri, nell’urto di una disgrazia improvvisa, quel dubbio maligno: davvero anche i capelli del nostro capo sono contati, davvero c’è un disegno in cui Dio ci ha pensati e voluti?
Io ci credo. Ci credo, oserei dire, disperatamente: perché altrimenti nulla avrebbe senso, perché altrimenti uno schianto di lamiere annienterebbe in un attimo coloro che amiamo. E no, non può essere. (Non capisco, ammetto, la maggior parte dei miei simili, che non credendo in alcun Dio pure non sembrano porsi la questione. Vivono dentro al Caso serenamente, almeno finché va tutto bene. Finché una telefonata non li sveglia nel cuore della notte, e la voce di uno sconosciuto fa il nome di un figlio).
Certamente, mi dico, era un disegno, a noi incomprensibile e quindi intollerabile, che quella ragazzina di quindici anni morisse così. Non possiamo pretendere di capire. So solo che quando toccò a noi seppellire mia sorella – anche lei aveva quindici anni – lo schiaffo fu annichilente. Mia madre non se ne riprese mai. Mio padre, uomo forte, cambiò faccia: diventò un altro, meno orgoglioso, più buono. Io, bambina, guardavo attonita quella bara più in alto dei miei occhi. Anni e anni poi, in casa, di solitudine e silenzio. Di certo, senza quel lutto sarei stata un’altra donna. Positiva, brillante, una “prima della classe”: invece… Ma, senza quella morte, avrei cercato a un certo punto Dio, mi sarei sposata, avrei avuto i miei figli?
Certi schiaffi insostenibili forse chiamano chi resta a guardarsi dentro, e a scegliere se essere figli di un Caso, o di un Padre. Un Padre che non era distratto, l’altro giorno sull’A4. Ma le sue vie, ci è stato detto, non sono le nostre, i suoi pensieri non sono i nostri pensieri. Tutta una vita, ci vuole magari, per chinare la testa. Per arrivare a dire, semplicemente: «Sia fatta la Tua volontà».
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