Da anni conservo nel computer una foto che ritrae una sala da congresso completamente vuota e la scritta: «Convegno mondiale di persone con problemi di memoria». Quando la guardo, a volte, sorrido. Altre volte penso a coloro che faticano a capire l’amaro umorismo che contiene. Il più delle volte rammento perché l’ho conservata: non tanto perché è buffa ma perché mi ricorda quanto senza memoria la vita sarebbe triste, proprio come quella sala.
Quando pensiamo alle nostre vite digitali apparentemente abbiamo il problema opposto: la Rete sembra non dimenticare mai. Con tutto ciò che ne consegue. A partire dal fatto che ciò che pubblichiamo sui social ma non solo (e di cui spesso ci scordiamo nel giro di pochi giorni) può rispuntare ad anni di distanza ed essere usato contro di noi. Per esempio, se fino a qualche anno fa, certe sciocchezze giovanili rimanevano immortalate solo in una foto (spesso finita in fondo a un cassetto), che al massimo veniva riesumata nelle rare cene tra ex compagni di classe, ora qualunque cosa facciamo online può tornare a tormentarci (e spesso quando meno ce lo aspettiamo). Quando hai 15 anni o giù di lì non ti preoccupi troppo di ciò che pubblichi. Eppure, quando vent’anni dopo stai per ottenere un posto di lavoro importante o una carica di rilievo e qualcuno mette in circolazione alcune tue foto o post compromettenti può diventare un problema serio. Ma se è giusto (e lo è) poter cancellare delle tracce digitali personali (lo prevede anche il GDPR nella parte dedicata al diritto all’oblio) cosa è giusto cancellare e quanto della memoria digitale collettiva? Qui occorre fare una piccola digressione. Abituati come siamo a usare motori di ricerca come Google ogni volta che abbiamo bisogno di un dato, un nome, una nozione, un aiuto, un ricordo ci stiamo dimenticando che ciò che è racchiuso nella memoria digitale collettiva, cioè in Internet, è solo una piccola parte di ciò che la nostra società ha prodotto. Per esempio, basta avere bisogno di un articolo di giornale non recente, per accorgerci che online mancano intere raccolte di ciò che è stato pubblicato nei decenni prima del digitale. E ovviamente vale anche per certi libri, fotografie, documenti eccetera. Alcuni sono stati digitalizzati, ma ciò che è stato fatto e pubblicato negli ultimi 20 anni la fa da padrone in Rete. Ci sono però siti benemeriti come Internet Archive che da 27 anni lavora per dare «accesso universale alla conoscenza». Di fatto è una biblioteca digitale non profit - anzi, la più grande biblioteca digitale del mondo - fondata nel 1996 a San Francisco da Brewster Kahle. Conserva 37 milioni di libri, 16 milioni di file audio e molti altri contenuti, nonché servizi come la Wayback machine, cioè il più grande archivio di pagine Web dove sono conservati autentici cimeli, come le prime versioni dei siti online di giornali, partiti e organizzazioni. Ma non si tratta di un museo, quanto e soprattutto di un archivio che lotta per preservare la memoria digitale e nel digitale. E il verbo lotta non è casuale visto che nei giorni scorsi Internet Archive è finita in un tribunale americano sul banco degli imputati, con l’accusa di violare il diritto d’autore. La difesa ha cercato di spiegare che il loro servizio Open Library funziona come ogni altra biblioteca fisica, visto che per ogni libro esiste solo una copia e che quindi può essere “noleggiato” ogni volta solo da un singolo utente. Ma gli editori che vogliono vederla condannata non ci sentono. In tempi di crisi dell’editoria ogni centesimo conta. A costo di far chiudere la più grande biblioteca digitale esistente. Mi sbaglierò, ma credo che se ci riuscissero sarebbe un grave danno per la memoria di tutti. © riproduzione riservata