Rubriche

L'amore di Dio non si merita, si accoglie

Ermes Ronchi giovedì 5 giugno 2008
X Domenica
del Tempo Ordinario
Anno A

In quel tempo, Gesù, passando, vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte e gli disse «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». Gesù li udì e disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».

Un uomo, solo, seduto al banco delle imposte. Uno sguardo che incrocia il suo, una parola sola: Seguimi. E Matteo è naufragato in quegli occhi; il contabile abbandona, per uno sguardo, per una parola, la logica rassicurante del dare e dell'avere, se ne va dietro a quell'uomo, senza calcolare più nulla, senza neppure domandarsi dove sia diretto.
Il centro della scena è tutto di Cristo: Segui Me. Queste parole senza perché, questa mancanza di ragioni, sono la vera ragione del discepolo. È la persona di Cristo la causa, il senso, l'orizzonte ultimo.
È Lui il nome della forza che fa partire.
Matteo si è «convertito» a Cristo, perché ha visto Cristo «convertirsi» a lui, fermarsi e girarsi dalla sua parte. La vocazione non inizia con sacrifici o rinunce, essa porta innanzitutto un incremento d'umano. Infatti la casa di Matteo, la sua vita prima solitaria, si veste di festa, si riempie di volti, di amici, molti si premura di dirmi, e peccatori, chiamati ben prima di essere convertiti. Convertiti perché chiamati.
Non voglio sacrifici! La religione non è sacrificio: guarisce la vita, fornisce consistenza e profondità; non la mortificazione dà lode a Dio, ma la vita piena, forte, vibrante, appassionata.
Gesù mangia con Matteo, mangia con me, e mi assicura che il principio della salvezza non sta nei miei digiuni per lui, bensì nel suo mangiare con me. Ci guarisce fermandosi con noi: la sua vicinanza è la medicina, un flusso di vita che mi consegna, insieme a strade, festa, sogni, comunione.
Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori. Qual è il merito dei peccatori? Nessuno. Sono coloro che non ce la fanno, che non sono all'altezza, ma scoprono un Dio che si è fermato a guardarli. Dio non si merita, si accoglie.
Gesù cerca il peccatore che è in me. Non per assolvere un lungo elenco di peccati, è poca cosa, ma per impadronirsi della mia debolezza profonda. E lì incarnarsi. Beata debolezza! E io, felice d'essere debole, dimoro nella misericordia, che mi conduce verso un Regno pieno non di santi, ma di peccatori perdonati, di gente come me. Quando sono debole è allora che sono forte. Nessun lassismo però. Vuoi restare nel peccato perché abbondi la grazia? Assurdo (Rom 6,1). Ma oggi mi godo la festa del peccatore che ha scoperto un Dio più grande del suo cuore. Solo questo mi converte ancora.
(Letture: Osea 6,3-6; Salmo 49; Romani 4,18-25; Matteo 9,9-13)