La prima volta che George Campbell ha passatola notte sul pavimento del suo furgone ha pianto silenziosamente. Cinque anni e molte migliorie all’abitacolo più tardi, pensare agli inizi ingloriosi della sua esistenza da pensionato nomade è meno doloroso. “Comprare il camioncino, trasformarlo in un camper e ammassarci tutti i miei possedimenti è stata una scelta difficile, ma non avevo scelta e non lo rimpiango”, spiega. Nella sua casa di Eau Claire in Wisconsin, George, che è vedovo, si sentiva intrappolato in una morsa sempre più stretta. Quando era stato licenziato dalla società locale di installazione di cavi tv, a 60 anni, senza piano pensionistico privato o aziendale, aveva lavorato a ore in un supermercato, riuscendo a malapena a pagare l’affitto. Due anni dopo, quando George ha cominciato a ricevere la pensione sociale di 600 dollari al mese, le cose non sono migliorate molto perché restavano migliaia di dollari di debito sulle carte di credito. «Era come cercare di vincere un gioco truccato in partenza — racconta —. Allora ho cambiato le regole». George, che non ha figli, ha venduto i mobili, dichiarato bancarotta e cominciato a viaggiare da uno Stato all’altro, seguendo il bel tempo e i lavori stagionali.
Come centinaia di migliaia di sottoccupati che sfuggono alle stime ufficiali del dipartimento al Lavoro statunitense, viaggia spesso sulla route 66, la stessa lungo la quale negli Anni Trenta si spostavano i disoccupati delle grandi città per offrire le proprie braccia in California.
Per George è la strada che collega una serie di magazzini di Amazon, dove è saltuariamente impiegato, con le città turistiche nei pressi del Grand Canyon dove è facile trovare lavoretti, e che costeggia il deserto dell’Arizona, dove si installa fra un contratto e l’altro perché non fa freddo, la vita costa poco e si può parcheggiare al lato della strada senza essere disturbati.
“È una vita itinerante, senza certezze, ma non senza gioie — aggiunge —. Sono uscito dalla società tradizionale, ma ho trovato una rete di sostegno nelle persone come me che, una volta arrivate la terza età, sono scivolate dalla classe media alla quale erano rimaste a stento aggrappati per tutta la vita”. Sono tanti. Dagli anni ‘80, infatti, le imprese americane hanno sostituito i fondi pensione finanziati dal datore di lavoro, che garantiscono una somma mensile fissa alla fine della vita lavorativa, con piani basati sui contributi volontari, che la maggior parte dei dipendenti non riesce a risparmiare.
La vita sulla strada di George lo ha già portato a cogliere lamponi nel Vermont, mele nello Stato di Washington e mirtilli nel Kentucky. Un’estate ha pulito le vasche di un vivaio di trote e fatto cuocere hamburger durante le partite di baseball in Florida, gestito l’ingresso ai campeggi delle Cascate del Niagara. Ha allestito bancarelle di zucche per Halloween, di fuochi d’artificio per il 4 luglio e di abeti a Natale. «Le esperienze non mi sono mancate — ride — ma neanche le disavventure. Non è una brutta vita, una volta che ti abitui all’idea che tutto quello che la società ti ha raccontato per decenni, che se studi, lavori sodo e rispetti le regole passerai i tuoi giorni in una casetta con la staccionata e sarai felice, beh, è una bugia». George non è più sommerso dai debiti. Ma, a 67 anni, si chiede se sarà mai in grado di fermarsi. «Non è facile trovare lavoro da vecchi». Ha anche notato che il salario diminuisce con l’età. «Mi è già capitato lavorare in cambio di un posto gratuito per il furgone, l’acqua, l’elettricità e sette dollari all’ora. Una volta che hai pagato la benzina e comprato da mangiare, preghi di non avere bisogno del dentista».
Un lusso al quale non rinuncia è un abbonamento a una catena di palestre, Planet Fitness. Ma non per fare ginnastica. «E’ un accesso sicuro a bagni puliti in quasi ogni città — dice— e una doccia, dopo una settimana nel deserto, non ha prezzo”. È uno dei segreti che ha imparato da altri itineranti e che condivide con i nuovi arrivati. “Ci ritroviamo anno dopo anno negli stessi campeggi e siamo diventati una specie di famiglia. O un clan. Quello dei sopravvissuti”.
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