L'altezza da Oscar di Lusia e la sua vera grandezza
È passato così, un po' sottotono, il fatto che la narrazione dello sport sia stata protagonista in questa edizione degli Oscar. Proprio Will Smith, infatti, ha vinto la statuetta grazie all'interpretazione del padre di Serena e Venus Williams, le sorelle più famose del tennis e in corsa c'era anche il nostro Paolo Sorrentino con una storia ispirata da Diego Maradona. Tuttavia la serata è stata indimenticabile per la vittoria di "The Queen of basketball" nella sezione "Cortometraggio documentario". Il regista Ben Proudfoot racconta la vera e struggente storia di Lusia Harris nata nel 1955 a Minter City, piccola città del Sud Mississippi. Decima figlia (su undici) di due mezzadri raccoglitori di cotone, da ragazza lavorava nei campi e, prima di addormentarsi, guardava i suoi idoli della Nba: Bill Russell, Wilt Chamberlain, Kareem Abdul Jabbar e Oscar Robertson. Si allenava a imitarli, tirando in un canestro rudimentale nel cortile di casa. Lusia, 191 centimetri, era considerata "soltanto alta", fatto indifferente per tante materie scolastiche, ma non per lo sport.
Quei centimetri saranno la sua possibilità di riscatto e le garantiranno di andare al College, grazie al basket. Lusia porterà la sua Delta State alla vittoria di tre titoli nazionali consecutivi, battendo le avversarie di Immaculata College, scuola cattolica con tantissime suore a fare il tifo sugli spalti. I numeri impressionanti di Lusia le valsero la convocazione con la maglia della nazionale americana ai Giochi Olimpici di Montreal 1976, prima volta assoluta del basket femminile sotto ai cinque cerchi. Segnerà il primo canestro della partita di apertura del torneo, Usa-Giappone, siglando così un record imbattile: i primi due punti della storia del basket femminile ai Giochi Olimpici saranno per sempre suoi. La medaglia d'argento (gli Usa finiranno dietro solo all'Unione Sovietica), le sue prestazioni incredibili e l'assenza, ai tempi, di un campionato femminile professionistico, portarono a un fatto clamoroso: nel 1977 la squadra maschile di New Orleans, la scelse per la Nba. Per la prima volta della storia una donna avrebbe potuto giocare in un campionato maschile, ma Lusia decise di rinunciare a quella occasione, pensando di non esserne all'altezza. Tornò alle origini, facendo l'allenatrice nella sua scuola, conducendo una vita serena nonostante un disturbo bipolare emerso proprio al termine della sua carriera agonistica e diventando l'unica donna, oltre a Nera White, a entrare nella Hall of Fame del basket americano. Il cortometraggio che domenica ha vinto l'Oscar ha un'unica protagonista: Lusia che racconta se stessa, sempre in primissimo piano. Il suo viso si alterna a immagini sportive d'archivio, ma le parole ben scandite e la sua risata riempiono in maniera indimenticabile i ventidue minuti del documentario. Purtroppo Luisa se n'è andata il 18 gennaio di quest'anno, sessantotto giorni prima del riconoscimento di domenica. È incredibile come la grandezza possa qualche volta passare accanto, sfiorare e, apparentemente, non fermarsi.