C'è un grande albero lungo corso Sempione. C'ero passata accanto mille volte. Una sera ho notato per la prima volta che le sue robuste radici premevano sotto l'asfalto del marciapiede, in rilievo, sollevandolo, e qui e là incrinandone il manto. Che sofferenza in quelle radici soffocate, eppure in fiera battaglia contro il catrame di Milano. Mi sembrano, mi sono detta, vene, gonfie vene sul dorso delle mani di un vecchio. Nessuno dei passanti badava alle radici sepolte e ribelli. Nemmeno io, del resto, ci avevo mai fatto caso. Perché oggi, invece? Dalla memoria si è levato un ricordo: in ospedale accanto a mio fratello, scavato dalla malattia, prossimo alla fine. E quelle sue lunghe mani pallide su cui le vene disegnavano in rilievo dolorosi incroci – come una segreta mappa di rimpianti, di attese, di promesse perdute. Erano drammatiche e belle quelle mani: nel dormiveglia del malato le contemplai a lungo. Le mani di un uomo, quando nasce, sono inermi. Nell'età adulta forti, capaci di ogni bene e di ogni male. Alla fine raccontano la guerra combattuta, e la pietà, che ora domandano. Le mani dei morenti, mi sembrano quelle di Cristo in croce. Quell'albero di corso Sempione ora è l'albero di Luca. Con lo sguardo, ogni volta che passo, accarezzo le sue radici prigioniere.