Köder, il pittore con la tonaca che dipinse la misericordia
da mangiare (Le opere di misericordia corporale), olio su tela XX sec.
Collezione PrivataLa risposta viene dal fondo della casa dove la padrona, forse Marta di Betania, apre la porta a un pellegrino: abbiamo sete di essere accolti, di trovare ristoro nell'amicizia gratuita e sincera, di essere consolati nelle nostre infermità spirituali e, soprattutto, abbiamo sete di essere perdonati. La strada non sempre è un bel luogo. Lo sanno i molti costretti a vivere per le vie, lo sanno i nostri adolescenti, lo sanno le pagine di cronaca dei nostri giornali. Ma al timore della strada si contrappone il calore della casa. È il senso del giubileo: anche questo pellegrino passa da una porta. Abbandona la precarietà della strada ed entra nella familiarità consolante di una casa. Dietro a lui si spalanca un orizzonte su campo rosso (rosso come l'abito della Maddalena) e con al centro una croce, anzi, una tomba. Ecco di che cosa abbiamo sete: abbiamo sete di eternità. Accanto all'abbraccio di Marta vediamo un ammalato; un ignudo da vestire; alle sue spalle un carcerato da visitare. Sono le tre piaghe della nostra vita: le infermità; le nudità umane e psicologiche; le nostre colpe. Tali piaghe saranno risanate, totalmente, da un abbraccio di misericordia. Questo abbraccio non è quello di Marta, ma, nel suo, è quello di Gesù. Così praticare la misericordia significa dare all'uomo il perdono che Cristo stesso ci ha dato; fare del bene per testimoniare che Cristo stesso ci ha salvato. Non è, la Chiesa mera, opera assistenziale, ma è anzitutto annuncio di una vita che non muore, la stessa che si spalanca dietro la stretta di Marta. La stessa annunciata dalla Maddalena la notte di Pasqua; la stessa che dobbiamo testimoniare noi quando, dopo essere passati per la porta giubilare, siamo ammessi a quella familiarità con Dio che è promessa di un abbraccio eterno.