Cinque miliardi di euro. A tanto ammonterebbe il giro d'affari del cosiddetto turismo enogastronomico collegato alle migliaia di prodotti agroalimentari tipici del nostro Paese. Un bel risultato - definito proprio in questi giorni - che tuttavia cozza pesantemente contro altre non proprio esaltanti posizioni che la nostra agricoltura si trova ancora oggi ad occupare.
A far vincere i campi italiani sul fronte delle prelibatezze a tavola non sono solamente i prodotti a denominazione di origine (vini e cibi che possono fregiarsi dei marchi DOP, IGP e DOC), ma soprattutto i 4.100 "prodotti tradizionali" che la Gazzetta Ufficiale ha recentemente elencato. Si tratta dei rappresentanti di tutto lo scibile alimentare nazionale, dalla pasta all'ortofrutta, dalla carne ai formaggi, fino alle preparazioni alimentari, ai grassi, ai condimenti. Tutto quello che per almeno 25 anni può dimostrare di fare parte della tradizione agricola e gastronomica di una determinata area e che dal duemila ad oggi è stato censito e classificato dalle regioni. E' proprio questo patrimonio che - come ha fatto notare la Coldiretti - è in grado di attivare un importante indotto turistico che fra l'altro le statistiche danno in netta controtendenza rispetto all'andamento generale dei consumi. Basti pensare che solamente per il comparto dei vini, sembra essersi registrata una crescita del 6% all'anno. Tutto senza contare il consueto contorno di tradizione e cultura che accompagna questo tipo di consumi così apprezzato dagli stranieri che vengono nel nostro Paese.
L'agricoltura italiana, quindi, ha i numeri per vincere su particolari mercati, magari anche difficili. Ma, contemporaneamente, non riesce a farsi riconoscere il ruolo che potrebbe spettarle anche in altri ambiti. Come quello della spesa alimentare generale. Gli ultimi dati Istat da questo punto di vista parlano chiaramente: nella filiera alimentare che parte dai campi e arriva alle "tavole" di tutti noi, l'agricoltura occupa irrimediabilmente l'ultimo posto. Il 19% circa della spesa, infatti, rimane nelle mani degli agricoltori mentre - stando sempre alle rilevazioni di Coldiretti ma non solo - il restante va al commercio e all'industria con una netta prevalenza del primo.
Questa situazione pone ovviamente una domanda generale. Tutti i prodotti alimentari devono essere "tipici" e "certificati" per consentire agli agricoltori margini di guadagno decenti? Ovvia anche la risposta. Pensare di ricondurre tutta la produzione agricola sotto marchi e denominazioni di origine e letteralmente impossibile. Altre, quindi, devono essere le strade da percorrere. Come quelle delle intese di filiera, degli accordi di fornitura e trasformazione, delle concentrazioni di prodotto. Sono chiaramente percorsi difficili e tortuosi da compiere, soprattutto perché prima di essi serve un cambiamento culturale nell'approccio ai rapporti di filiera che spesso sembra ancora lontano dall'essere definito. Ma non esistono altre soluzioni.