Io sono Francesco Sono Totti. E tutti noi
Ora, se guarderete “Io sono Francesco Totti” e leggerete questo mio articolo davvero senza pregiudizi, non vi sembrerà per nulla strano trovare Aristotele e il Pupone nello stesso capoverso. Il docufilm di Infascelli, certo, parla di Totti, dei suoi sogni di ragazzino, del suo amore sconfinato per il pallone, per la Roma, per sua moglie, per la sua famiglia, per i suoi tifosi. Parla di un ragazzo che diventa, quasi suo malgrado, un eroe, capace di far piangere uno stadio intero il giorno del suo addio al calcio. Parla dei successi, delle cadute, delle scelte azzeccate, degli errori, dei suoi amici e dei suoi nemici. Parla dei momenti facili e di quelli difficili. Parla di quell'istante in cui percepiamo la fine di qualcosa di grande, riassunto con un piano sequenza sul protagonista, seduto nella solitudine assoluta del ventre dello Stadio Olimpico mentre, fuori, 73.000 persone non stanno aspettando altro che lui esca dal tunnel per l'ultima volta, con la maglia giallorossa e la fascia da capitano. Beh, quelli siamo noi. Siamo quell'uomo seduto lì da solo come se fosse chiamato, lui campione del mondo, a una cosa mille volte più grande di sé e siamo anche quei 73.000 sugli spalti, con i lacrimoni pronti. La stessa voce narrante di Francesco Totti è la voce della nostra coscienza: “Guarda quant'era giovane mamma!”, dice davanti a una foto, come se si stesse rivolgendo contemporaneamente a noi e a se stesso.
Credetemi, queste due ore parlano della storia di un calciatore che ha segnato un'epoca, ma molto di più del senso dello sport, raccontano di lui quanto di ciascuno di noi. È una specie di cerchio che si chiude, ricordando che la grandezza alla quale siamo chiamati ha sempre un prezzo, piccolo o grande, da pagare: “Ma io dico: ce sarà mai un giorno nella vita mia in cui nessuno me ferma e nun firmo manco n'autografo? Prima che moro, una volta, potrò mai uscire senza che nessuno me dice niente? Secondo me no...”.