Internet è morto. No, anzi è morto solo il web, cioè la parte dalla Rete navigabile con un browser e dove trovano spazio i siti Internet. Probabilmente dopo queste due frasi avrete già un po’ di mal di testa. La questione, però, oltre che tornata di moda è anche seria. Per affrontarla in maniera corretta dobbiamo innanzitutto spiegare cosa sia la Dead Internet Theory (la Teoria di Internet morto). Si tratta di una teoria del complotto che afferma che la maggior parte dei contenuti della Rete non sono umani, e che ciò avviene «per rendere marginale l’attività umana al fine di manipolare la popolazione». Circola da anni ed è tornata prepotentemente di moda con l’avvento dell’intelligenza artificiale generativa. Che la maggior parte del traffico di Internet non sia umano è quasi sicuro, visto il gran numero di lavoro digitale e di scambio dati che fanno già le macchine. Ma tutto questo da solo non basta a dare corpo alla teoria. La quale però segnala un problema reale. Che non riguarda tanto la nostra presenza umana in Rete, ma chi gestisce il sapere e la conoscenza degli uomini in un mondo sempre più digitale. Aggiungiamo un ulteriore elemento che riguarda la memoria. In queste ore il Pew Research Center ha reso pubblico uno studio che indica come un quarto dei siti Internet che erano attivi fra il 2013 e il 2023 non esistono più. Il fenomeno è generalizzato e riguarda siti governativi (21%), come i link nelle pagine di Wikipedia (54%), articoli e siti di notizie (23%). Anche i social sono colpiti dal fenomeno: il 20% dei tweet scompare entro pochi mesi. A ciò va aggiunto che sui social (e non solo lì) produciamo sì sempre più contenuti digitali (foto, video, post di testo) ma in alcuni casi (come le «storie») scompaiono dopo 24 ore o come certi messaggi e allegati su WhatsApp dopo averli aperti. Penserete: se spariscono un bel po’ di banalità abbiamo tutti da guadagnarci, ma la questione è più ampia. Per esempio riguarda anche il fatto che nelle nuove ricerche web le macchine non si limitano a scegliere (com’era fino a poco fa) quali link mostrarci nei risultati, ma ci proporranno dei riassunti con la soluzione. Certo, al momento sono tutt’altro che perfetti (Google in Usa ha suggerito di mettere colla nella pizza e benzina negli spaghetti. E ha scritto che solo 17 presidenti americani erano bianchi e che uno era musulmano, tutte cose non vere). In ogni caso la strada sembra tracciata. Così noi faremo sempre meno fatica, ma molti contenuti di qualità finiranno presto fuori dai nostri orizzonti. Insomma, siamo davanti a una svolta importante. Così importante e rivoluzionaria che alcuni sostengono che il futuro del nostro sapere (paradossalmente) non sarà nella Rete ma nei libri. Perché solo lì troveremo
informazioni, pensieri e ragionamenti complessi che l’AI avrà nel frattempo sminuzzato e semplificato (a rischio anche della banalizzazione). In un libro uscito nell’ottobre scorso e intitolato The Metaweb - The Next Level of the Internet (cioè, Metaweb il prossimo livello di Internet) si indica come «prossima frontiera del Web il Metaweb, cioè una rete che colleghi persone e informazioni, con responsabilità e scambio di valore equo, così da ridurre errori, falsi,
abusi e truffe, oltre a promuovere una collaborazione senza precedenti necessaria per affrontare le sfide globali dell’umanità». E l’intelligenza artificiale? Il libro propone «una relazione simbiotica in cui l’intelligenza artificiale aiuta a generare, organizzare e curare i contenuti, mentre il Metaweb fornisce i vincoli, i dati e il contesto necessari affinché l’IA funzioni in modo efficace, trasparente e in linea con l’umanità». Se sarà un’alternativa non solo possibile ma anche concreta o è se sia solo utopia, è ancora presto per dirlo. © riproduzione riservata