Quanti siamo, chi siamo, cosa facciamo e come. Dipende in buona parte dalla combinazione di tutti questi fattori il destino economico dell’Italia, paese vecchio e piuttosto stanco che rischia la marginalizzazione più della media dei suoi vicini di continente, a sua volta proiettati su un declino quasi strutturale ma un po’ meno rapido. La questione però è più complessa di quanto non possa sembrare a prima vista, e se non si colgono tutti i pezzi del puzzle si rischia di avere una visione parziale e semplicistica.
Partiamo dagli aspetti quantitativi: “quanti” e “chi” siamo. Come ha ricostruito il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, alle sue prime considerazioni finali del 31 maggio, di qui al 2040 il numero di persone in età lavorative in Italia scenderà di 5,4 milioni di unità, nonostante un contributo di addetti dall’estero stimato in 170mila persone all’anno (si veda Avvenire del 1° giugno). Potenzialmente si tratta di un’emorragia dagli effetti nefasti: ipotizzando che intanto nient’altro cambi a livello di produttività e di tasso di occupazione, l’Italia rischia di perdere il 13% del Pil in poco più di 15 anni, e questo per il solo effetto del suo impoverimento demografico. Di qui il bisogno di importare talenti dall’estero, e dunque di maggiori flussi di migranti, uno dei messaggi chiari arrivati dalla Banca d’Italia che ha avuto maggiore eco mediatica.
Ma è solo una faccia della medaglia. Perché oltre ai dati quantitativi ci sono anche quelli qualitativi, e dunque la possibilità/necessità di superare l’inerzialità di un contesto che da troppo tempo vede l’Italia in crisi di produttività e con un tasso di occupazione inferiore agli altri Paesi a noi comparabili. Siamo al “cosa” e “come” facciamo, che – se migliorato – può impattare molto positivamente sulla creazione di valore, e dunque compensare almeno in parte l’impoverimento di cui parlavamo prima. «Solo la produttività potrà assicurare sviluppo, lavoro e redditi più elevati», ha sottolineato Panetta. Che quindi è andato ben oltre ai migranti o al tasso di occupazione, peraltro in rialzo ma ancora inferiori alla media dell’area euro.
Ma cos’è la produttività? In teoria, è il valore aggiunto generato per ore lavorate e per intensità d’uso del capitale fisso, date le tecnologie disponibili. In pratica, è una miscela di elementi molto articolata, che comprende tutto ciò che impatta sull’attività di lavoro – dall’istruzione del lavoratore fino alla logistica intorno al posto di lavoro – e che possiamo genericamente imputare al “contesto”. Tra i motivi per cui si parla poco di produttività c’è anche la difficoltà a calcolarla, soprattutto in valori assoluti. Più agevole monitorarne l’evoluzione, e qui si ha la prova del freno che rallenta l’Italia: in uno studio pubblicato sempre dalla Banca d’Italia nel dicembre scorso, curato da Rosalia Greco, emerge che soltanto tra il 2000 e il 2022 il nostro Paese ha accumulato un ritardo fino a 15-20 punti percentuali rispetto ai suoi vicini di casa. Posizionando a 100 il livello di produttività del 2000, nel 2022 l’Italia è a quota 105, la Francia a 115, la Spagna poco più su, la media dell’area euro a 120 e la Germania a 124. Numeri che parlano da soli, e che bastano a spiegare perché la vera partita si giochi su due piani, e che quello quantitativo - quanti siamo - sia al massimo un buon punto di partenza, ma senz’altro non un punto di arrivo.
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