Giuliano Ladolfi Editore ha pubblicato Novalis o Europa, di Giselda Pontesilli, con prefazione di Matteo Veronesi e postfazione di Marco Salticchioli (pagine 96, euro 10). Andiamo subito alla poesia eponima, che sta al centro del libro; anzi, sono tre poesie. La prima va trascritta per intero, per far capire di che cosa ci accingiamo a parlare: «Com'è sicuro, com'è vero e chiaro / che tanti cari uomini / presenti-antichi / ci sono sempre intorno, / premurosi con noi / benevoli vicini. // Sono persone a volte / viste una sola volta / di cui dopo, d'un tratto, si ricorda / un solo tratto timido, / un domandare invano, / una frase. // Ora, che di loro tutto tace / che non possiamo parlarci, scusarci, / vederli fisicamente, / che più facciamo di noi? Che più speriamo? / Chi siamo? Non si sa, non si può / non c'è rimedio a niente. // Ma intanto, è grazie a loro / se ancora siamo trattati / umanamente / se io mi pento, e almeno in questo / ho un centro, è perché li amo, / li frequento». La seconda poesia, lunga quasi cinque volte la prima, ne è anche una parafrasi da cui apprendiamo che «i tanti cari uomini presenti-antichi» sono, in parentesi, «pittori, pensatori, o santi anche, o uomini / comunque buoni»: l'Europa, insomma, che non è geografia ma cultura. Nella postfazione, lardellata di aulici "dipoi" (troppi), Salticchioli precisa che il titolo Novalis o Europa allude a Cristianità o Europa di Novalis (grazie), mentre «l'Europa sono gli umili e i "sottomessi", e i poeti». Interpretazione riduttiva, mi pare, perché l'orizzonte culturale della poetessa appare più vasto e onnicomprensivo. Ancora nella seconda poesia c'è un sorprendente «C'è qualcosa di nuovo oggi nell'aria - dice Novalis - anzi d'antico». Mettiamo il sole al posto dell'aria, e abbiamo l'Aquilone di Giovanni Pascoli. Anche questo è Europa. Nella terza poesia, la più breve, la poetessa (Roma, 1955) annovera tra i «tanti cari uomini presenti-antichi» il professor Rosario Assunto, suo maestro, con Fedele D'Amico, all'università. La poetessa ha il tic di racchiudere i titoli in frecce che si aprono verso l'esterno o convergono all'intero. Pazienza. Nella sua attenta prefazione, Matteo Veronesi – che ha quasi sempre ragione, e questa volta ce l'ha – valorizza i cinque sonetti conclusivi. Il primo e il quarto son debitamente suddivisi in tre quartine e in tre terzine, negli altri tre i quattordici versi non hanno distanziamento in stacchi. Personalmente, ritengo che un sonetto debba essere scritto come un sonetto, ma sono disposto a tollerare l'assenza delle rime canoniche, qui sostituite da assonanze spesso a metà di un verso. Questi sonetti non sonetti, attratti e abbacinati dalla luce del ricordo, «di quella forma originaria e purissima, quasi archetipica, della tradizione lirica italiana conservano perfettamente – come risorti da una lontananza di sogno, risaliti da un'immensa e per ciò stesso impercettibile distanza storica – la struttura e il respiro». Matteo Veronesi dixit. Novalis, secondo di undici figli, morì di tubercolosi, non ancora trentenne, nel 1801. I suoi Inni alla notte, scritti nel dolore per la morte della fidanzata Sophie e dell'amatissimo fratello Erasmus, sono quasi un manifesto del romanticismo.