In una società «senza trauma» il romanziere adotta l'estetica punk?
Ma non intendo muovere obiezioni di principio a Giglioli. La sua interpretazione infatti la condivido: molti prodotti della narrativa attuale si presentano come «scrittura dell'estremo», dice Giglioli, proprio perché viviamo in un'epoca (e in una zona del pianeta) in cui l'estremo è raro e il solo vero trauma è «l'assenza di trauma». «Il travestimento dell'estremo, dell'osceno, dell'incommensurabile» è diventato la forma di scrittura più ricorrente, mentre, per paradosso, «mai la vita umana è stata così protetta (...) Tutto è cura, tutela, comprensione, diritto alla felicità. La felicità è anzi un dovere».
Ma la letteratura maschera e rovescia questa situazione. Estremizza il linguaggio del pericolo, del rischio e dell'inusitato proprio quando tutto ciò lo abbiamo accuratamente respinto fuori dalla nostra vita quotidiana. In termini sia teorici che storici, il libro di Giglioli analizza e discute una serie di autori italiani: soprattutto Scurati, De Cataldo, Tiziano Scarpa, Franchini, Saviano, Siti, Moresco, Genna. Un riassunto veloce farebbe torto alle qualità speculative del discorso di Giglioli. Concludo solo con un interrogativo: gli stili dell'estremismo, nati in filosofia e in poesia, nelle avanguardie artistiche e politiche novecentesche, conquistano ora i territori del romanzo? I nostri narratori giocano con il nazismo? O adottano l'estetica punk?