In memoria del figlio: Rachel e la corsa per la vita
Il momento in cui la sua «fede divenne reale», come ripete Rachel, è stato anche il più tragico della sua esistenza, quello in cui le speranze che Brian fosse ancora vivo si sono spente. Il minore dei suoi due figli aveva 18 anni quando una notte fu rapito insieme al suo compagno di stanza, accanto al campus universitario francescano di Steubenville, in Ohio, negli Stati Uniti. Pochi giorni dopo, quando ancora la madre faceva appello ai rapitori e prometteva il suo perdono, si scoprì che Brian Muha e Aaron Land erano stati portati subito dopo il rapimento in un bosco nel confinante stato della Pennsylvania, picchiati e uccisi senza pietà da due sbandati che avevano la stessa età delle loro vittime e vivevano nei sobborghi violenti e degradati della città. Rachel Muha ha superato da poco i 70 anni e da quel 31 maggio 1999 la sua vita ha preso una direzione inaspettata. Già al funerale lei e il figlio maggiore Chris dissero che «il loro più grande desiderio era che la vita di Brian avesse un senso».
La prima cosa che fece fu acquistare la casa in cui il giovane visse le sue ultime ore e trasformarla nella sede della Fondazione Brian Muha. All’inizio - racconta - era la “Casa della Divina Misericordia”, dove alloggiavano gratuitamente gli studenti del vicino Seminario, ora è la base da cui si raccolgono fondi per pagare la retta in istituti scolastici di eccellenza a ragazzi in situazione di disagio. Ma non bastava.
Rachel Muha con i ragazzi del Centro Run the race in Ohio - https://www.brianmuhafoundation.org
Rachel capì che era stata la droga, l’emarginazione, la mancanza di una famiglia ad aver armato le mani degli assassini di suo figlio. «Non volevo odiarli», dice, ma fare qualcosa per cambiare la vita di coloro che vivevano lo stesso disagio. Così a Columbus, la capitale dell’Ohio, pensando anche a Brian che voleva diventare pediatra, nel 2005 la donna, sorriso aperto, capelli bruni, ha avviato il Centro Run the Race (Correre la corsa), un “doposcuola” - molto di più, in realtà - aperto e accogliente per i bambini e i ragazzi delle comunità cittadine più povere.
Al Centro arrivano ogni giorno una settantina di giovani e giovanissimi; ricevono un pasto sano e sostegno per svolgere i compiti, frequentano laboratori di arte e musica, godono di spazi per praticare sport e di una fattoria per conoscere da vicino gli animali e avere uno spazio verde sicuro in cui scorrazzare, così diverso dalla giungla metropolitana da cui provengono. Negli ultimi anni sono stati attivati anche corsi professionali per idraulici, falegnami ed elettricisti. «La vita è una corsa, e non ci può arrendere finché l’obiettivo non è raggiunto – spiega Rachel -. Questi ragazzi lottano per la loro esistenza, e non si capisce quanto duramente finché non ci si vive insieme».
Coloro che frequentano il Centro Run the Race «ricevono tutto quello che non hanno e di cui invece gli altri bambini dispongono normalmente: cibo, sostegno, un posto sicuro, alternativo alla strada, dove stare quando non sono a scuola, circondati da persone che li amano».
L’obiettivo è che i ragazzi e le loro famiglie, pur nella povertà di mezzi e di condizioni, capiscano che hanno in sé le risorse per cambiare la propria vita. Il Centro di Rachel non è solo un posto dove si può giocare a basket o mangiare gratis o ricevere abbigliamento sportivo senza pagare - questo li può convincere ad affacciarsi, ma non a restare o a ritornare... - , bensì un luogo dove i ragazzi più deprivati possono sperimentare «relazioni con adulti che li aiutano a costruire un futuro al di fuori della lotta per la sopravvivenza che affrontano ogni giorno». È la fede che diventa reale.