L'indomani all'alba lasciavamo i Flumi verso la grande città da dove, secondo Ugo, partiva una via che conduceva fuori dalla Metagonia. Lo scienziato che mi aveva accolto non ci trattenne, sebbene deplorasse la mia scelta di lanciarmi di nuovo nel mondo mobile: «Stavi quasi per finire l'opera della tua vita, la tua statua era già pronta, l'avremmo collocata all'interno della cerchia degli Immortali… Credi che i tuoi passi nella polvere lasceranno una traccia più profonda di quella del nostro inchiostro indelebile sulla carta immarcescibile?». Gli indicai il mucchietto di cenere al quale avevo ridotto l'«opera della mia vita». Gli mostrai anche una scoperta che avevo appena fatto. Contrariamente a quanto diceva il loro studio in corso sul lemmiscus inornatus, la loro «carta immarcescibile» era molto apprezzata da questa varietà di topi. Forse erano di una specie mutante, in ogni caso erano diventati dei veri topi di biblioteca. Stavano rosicchiando l'in folio dedicato al coguaro nebuloso e il loro appetito sembrava avere tutto l'eccesso del rancore accumulato per millenni contro il loro predatore naturale. Ci lasciavamo dunque alle spalle un villaggio in subbuglio. Le campane suonavano a martello. Gli uomini correvano di qua e di là come durante un incendio. Le fiamme erano i topi e per ogni pugno scacciato se ne abbatteva un'ondata. Un Flume ci supplicò di non portare via il cane con noi: poteva aiutarli, anche se tutta una muta non sarebbe bastata a fermare l'invasione. Ignazio non volle saperne. Si ostinava a seguirci. Potevamo rallegrarci di avere un discepolo perseverante nella fede. I rovi della macchia che attraversammo non ci procurarono né graffi né strappi. Ugo aveva già aperto la strada in un senso e nell'altro, bastava infilarsi nelle gallerie che il suo machete aveva già scavato. Aveva pensato a tutto: la borraccia dell'acqua, i frutti secchi, una balestra con dieci quadrelli, due poncho spessi come coperte in previsione del freddo, una specie di tela cerata contro la rugiada e la pioggia, perché presto avremmo camminato all'aperto… Erano bello essere con lui. Ero tranquillo come Tobia in cammino verso Ecbatana in compagnia dell'arcangelo Raffaele. Lo seguivo come il cane. Credo anche che stessi seguendo il cane, affidandomi più al suo istinto che ai miei pensieri. Del resto, di pensieri non ne avevo più molti. Oscillavano tra due parole: “Grazie” e “Perdono” che spesso filtravano nel solido trantran del cammino, «Uno, Due, Uno, Due…» Non riuscivo neanche ad arrivare fino a tre… Uscendo da una fratta, il campo visuale si allargò. Davanti a noi si stendeva una pampa sconfinata e senza rilievi, di un verde smorto, resa ancor più vasta dal cielo cupo che le incombeva addosso. Il sole poteva essere ovunque, non faceva ombra, il materasso di nuvole diffondeva un chiarore uniforme e polveroso. Qua e là si alzavano grossi ciuffi di giunchi dalle piume bianche. La brezza li muoveva quasi sforzandosi di spolverare l'orizzonte. Ignazio tirò su la coda come un altro piumino. Era un saluto fraterno indirizzato ai giunchi? No, aveva visto come me una piccola cerva color cenere che si era nascosta tra le canne. Ugo armò e puntò la sua balestra, il cane balzò per stanare la bestia… Non so cosa accadde. Mi misi a galleggiare in una luce lattiginosa. Quando ritornai in me, era notte, Ignazio rosicchiava un osso, un pollo enorme cuoceva sul fuoco, (quello che avevo preso per una cerva era un uccello corridore, di quella specie di struzzi chiamati nandù). Credevo di essere rimasto svenuto per un po', ma Ugo mi assicurò del contrario, avevo sempre seguito, fatto ciò che bisognava fare – non un granché a dire il vero – sebbene con aria assente e pacifica e senza sbattere quasi mai le palpebre. Cosa mi era successo? Forse un avvenimento spirituale. Forse un accidente cerebrale. Ma mi sentivo meglio in quel posto tra il cane e gli angeli. Una pace che non era lontana da una certa ebetudine. Come se fossi appena rinato. O come se fossi già morto. Mi sovvennero le parole di san Paolo ai Colossesi: Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio. La mia era talmente nascosta che dentro di me non ripetevo «Gesù, Gesù» come il pellegrino russo, ma solamente «Uno, Due, Uno, Due…», tra meccanica e mistero, perché la scansione della marcia militare era al tempo stesso il salto dall'Uno al Due, fenomeno inspiegabile secondo Parmenide, analogo alla creazione del mondo e che non mi stancavo a contemplare: «Uno, Due…» Quello fu lo stato più mistico che mai mi fu dato di conoscere. Non saprei dire tuttavia se fosse il quarto grado dell'orazione o il grado zero della ragione, il compimento del cristianesimo o il principio di un cretinismo acuto. Dopo tre giorni di cammino la temperatura era scesa di parecchio e, poco a poco, la pampa si ricoprì di neve. Facendo eco al mio spirito, il paesaggio era diventato come una pagina bianca. I nostri passi scricchiolavano nel silenzio. Le nostre respirazioni facevano fumo. Non avevo freddo, e, per rispondere alla domanda di Ugo a questo proposito, non trovai niente di meglio che le parole di un terribile cantico allo Spirito Santo di non so quale ignobile gruppo religio-pop: «Tu ci canti: Non abbiate timori/ il Tuo calore inonda i nostri cuori…». Tuttavia il merito era probabilmente degli spessi poncho. E di notte, il cane dormiva tra di noi come una lunga borsa d'acqua calda serica. Al mattino mi svegliavano i suoi mugolii: scoprivo con stupore di aver dormito abbracciandolo come un grosso peluche e che gemeva per liberarsi dalla mia stretta. Sei giorni dopo la nostra partenza dai Flumi, l'alta città apparve sulla cima di una montagna. Era una specie di ziggurat o forse di tempio inca – anelli impilati che salendo si restringevano liberando vasti terrazzi. Faceva pensare a certe rappresentazioni di Babele, ma anche ad un immenso razzo di calcare con tutti i suoi stadi, la cui punta era un camino che disegnava senza tregua pennacchi neri sul cielo grigio. «È Chavitar», mi disse Ugo, la città degli Exatani. Il nome vuol dire «la Grande Partenza» ma anche «la Navata». Le persone che vi ho incontrato, esattamente due settimane fa, mi hanno spiegato che è la porta della Metagonia. Parlano solo di viaggio. Come «buongiorno» dicono «Le auguro dei felici preparativi!». Eppure, è strano, la loro cultura è del tutto sedentaria. Laggiù, alla base della città, ci sono stalle dove allevano mucche. Si nutrono principalmente del loro latte. Ho sentito parlare di un burro prezioso che è consumato solamente dalla nobiltà dei quartieri alti. Per dirti tutto, ho come un brutto presentimento. Ciò di cui si parla ovunque qui, è di un Esodo come quello Mosè, ma ciò che si vede è la piramide del Faraone. Come se i due potessero confondersi…
(40, continua. Traduzione di Ugo Moschella)