Mariupol è ancora lì, ha ricordato Zelensky al Parlamento belga. È lì, buco nero di dolore e di morte. Ma noi non ci stiamo abituando a quei palazzi distrutti, le finestre vuote, gli interni squarciati con cucine, giocattoli, annichilite case di bambole? Ci abituiamo, oppure non ce la facciamo – voltiamo la testa, parliamo d'altro. Rileggo le "Lettere" di Etty Hillesum da Westerbork, campo di raccolta in Olanda degli ebrei sulla via di Auschwitz, scritte tra il '42 e il '43. Etty, ventottenne, vede arrivare i treni carichi. «Una donna di 87 anni si era aggrappata alla mia mano come se non volesse più lasciarmi andare…», comincia. «Ma anche se continuassi per pagine e pagine, non avreste idea di quel ciabattare, barcollare e cadere a terra, del disperato bisogno di aiuto e delle domande infantili», scrive Etty, poi morta ad Auschwitz. A Mariupol non sono ebrei deportati, sono imprigionati dalla guerra che non riescono nemmeno a farsi profughi. Ma in migliaia, anche anziani e invalidi, da un mese senza cibo, medicine, corrente: si trascinano a fatica fra le rovine, le vecchie col fazzoletto in testa, curve, cariche di borse. Mi riecheggiano le parole di Etty: quel barcollare, quel cadere. Certo, quelli andavano ad Auschwitz. Questi sono "soltanto" strappati alle loro vite. Ma che ritorni, questo vecchio film in bianco e nero, vero di nuovo, e che non si possa fare niente, mi dà un senso di vergogna.